Il destino ha scelto per il governo Meloni uno stretto rapporto con la guerra. Il centrodestra ha iniziato la legislatura nel pieno dello scontro tra Russia e Ucraina, una guerra che sembra destinata a durare ancora a lungo. Per Giorgia Meloni l’invasione russa è stato un potente fattore di legittimazione politica.
Dal febbraio 2022 la leader di Fratelli d’Italia si è subito schierata con il sostegno della Nato alla difesa ucraina e così è riuscita ad accreditarsi a Washington e negli ambienti euro-atlantici, nonostante i pregiudizi che gravavano sulla destra sovranista italiana e l’alleanza con la Lega, protagonista negli anni precedenti di un plateale movimento filo-russo.
Ragionando con le amorali categorie del realismo politico si può dire che per Giorgia Meloni la guerra scatenata da Putin è stata più un’opportunità che è un problema. Da presidente del Consiglio è poi riuscita a tenere unita la coalizione nel confermare gli aiuti militari a Kiev. Ad oggi, soprattutto grazie a questa posizione, Meloni è percepita come un interlocutore affidabile e coerente dai suoi alleati occidentali.
Sul piano interno, invece, ha soppresso le simpatie putiniane della Lega e di Forza Italia, ma anche quelle meno esplicite presenti nel suo partito, trasformando Fratelli d’Italia in un perno politico del filo-atlantismo. Un meccanismo che ha diviso anche l’opposizione con profitto della maggioranza: i centristi su questo tema votano con Fratelli d’Italia, Schlein ha scelto la via di un sostegno tiepido ma affidabile a Kiev, mentre il Movimento 5 stelle si è apertamente schierato con le posizioni pacifiste. Dunque, il saldo netto per il governo, soprattutto in termini diplomatici e di percezione internazionale, è decisamente positivo.
Un anno dopo, Meloni si ritrova alle prese con un’altra guerra emersa in modo inaspettato e dirompente tra Israele e Palestina. La riapertura così decisa delle ostilità, l’estremizzazione sempre più radicale della politica in Medio Oriente, lascia presagire che anche in questo caso il conflitto non si risolverà in poche settimane. Anche in questo caso, Meloni sceglie di seguire la linea atlantica, di sostegno politico e diplomatico ad Israele. Pure questa volta, in Italia, la sinistra pare più divisa della destra: Netanyahu al momento dei fatti guidava una coalizione di destra, con alcuni elementi di conservatorismo radicale, pertanto è difficile per la sinistra sostenere pienamente la reazione israeliana pur condannando Hamas. Senza considerare che gran parte della sinistra italiana ha sempre avuto posizioni accomodanti verso la Palestina.
Dunque, in termini puramente politici anche questa guerra potrebbe andare più a vantaggio che a sfavore del governo Meloni. Anche perché i conflitti e gli attriti internazionali tendono a stabilizzare i governi in carica che evitano l’isolamento diplomatico. Il caos esterno rafforza la coesione interna. Tuttavia, ci sono altri elementi che possono incidere sullo stato di forma di chi è al potere.
La guerra in Ucraina ha innescato trasformazioni economiche rilevanti che i paesi europei non hanno ancora superato: l’inflazione c’è ancora, la crisi energetica non è del tutto scongiurata, il debito ha un costo maggiore, l’approvvigionamento di molti settori industriali è più complesso e fragile, la crescita frena. A questi fattori concorre anche la nuova guerra, soprattutto se i combattimenti non si dovessero fermare a Gaza.
La stabilità politica e diplomatica dovrà fare i conti con l’instabilità economica. Se arriverà una recessione, magari più severa di quanto previsto dalle banche centrali, la finanza pubblica in Europa può tornare ad essere terreno di scontro. Un teatro in cui però l’Italia è molto debole.
A quel punto il governo dovrà fare i conti con il debito pubblico, con la protezione delle fasce più basse e delle aziende più deboli, con le promesse elettorali mancate e con i denari spesi per la difesa. Può un governo di uno stato debole e inefficiente fronteggiare, pur indirettamente, più fronti di guerra, protezionismo e recessione senza ripercussioni politiche? È il quesito incubo che agita i sonni dei governanti italiani.
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