- Capire la Turchia è essenziale per la politica estera dell’Italia. I tentativi di saldare nazionalismo e islam sono iniziati già negli anni Cinquanta. La miscela politica dell’AKP nasce da una lunga storia e dalla conoscenza della società turca.
- Siria, Libia, Azerbaijan, Somalia, Africa orientale: la Turchia è su tutti i fronti, non limitandosi solo alle note diatribe sul mar Egeo, Grecia e Cipro.
- Una composizione assai complessa che non può essere liquidata superficialmente. Se per gli occidentali l’odierno sistema turco è lontano dalla democrazia liberale e dai diritti dell’uomo, per relazionarsi con esso è necessario analizzarne le radici.
Siria, Libia, Azerbaijan, Somalia, Africa orientale: la Turchia è su tutti i fronti, non limitandosi solo alle note diatribe sul mar Egeo, Grecia e Cipro. Come titola Federico Donnelli il suo bel saggio, il progetto politico di Recep Erdogan si può chiamare Sovranismo islamico: «Un mix tra la tradizione autocratica kemalista, gli attuali regimi one-man rule come Russia e Cina, le strutture di potere tipiche dei regimi mediorientali e l’elemento religioso come timbro identitario e collante sociale». Una composizione assai complessa che non può essere liquidata superficialmente. Se per gli occidentali l’odierno sistema turco è lontano dalla democrazia liberale e dai diritti dell’uomo, per relazionarsi con esso è necessario analizzarne le radici.
Il mito della purezza
Dalla fine dell’impero Ottomano, la tradizione politica della Repubblica turca si basa su nazionalismo statalista, conservatorismo religioso e interessi economici legati allo stato. Su tutto aleggia l’implicito mito della purezza turca in termini etnici, ideologici, opposto alla diversità ottomana. Si tratta del difficile rapporto tra identità nazionale e pluralismo, tema scottante anche in altre società. In ambito turco ciò assume caratteristiche peculiari perché legato alla lotta per la sopravvivenza dello stato (subito dopo la grande guerra), e al ruolo della religione nel paese che ha abolito il califfato islamico.
Per seguire il filo che conduce a Erdogan occorre risalire al 1950, quando le elezioni furono vinte dal Adnan Menderes, il leader liberale di tendenze populiste capo del Partito democratico (Dp), che a sorpresa batté il partito di Ataturk (Chp) e del suo successore Inonu. Già allora Menderes riuscì a saldare il ceto dei commercianti e piccoli imprenditori privati urbani con le masse rurali religiose e conservatrici: era l’alleanza dei periferici contro l’élite politico-militare kemalista sostenuta dalla borghesia di stato, laica e occidentalizzata. Mezzo secolo dopo Erdogan è riuscito a replicare la medesima coalizione.
L’esperimento naufragò nel sangue: pur liberalizzando e riabilitando la dimensione religiosa nella vita pubblica, Menderes divenne autoritario e non seppe limitare il suo populismo, favorendo l’aumento delle tensioni internazionali. Nel 1955 non evitò l’escalation con la Grecia che sfociò nei pogrom anti-greci e anti-cristiani di Istanbul, Smirne ecc. Menderes svelò il suo volto peggiore tanto che l’esercito intervenne con il golpe nel 1960, lo arrestò e lo fece giustiziare. Da quel momento i militari divenivano protagonisti della vita politica turca, almeno fino al golpe fallito del 2016.
Gli anni dell’ideologia
Erdogan non ha mai nascosto la sua ammirazione per Menderes. Gli anni Sessanta furono quelli dell’ideologia: un’opposizione di sinistra sempre più radicalizzata si oppose all’emersione di una destra estrema nazionalistica. In tale contesto nacquero gli ultras (lupi grigi) ma anche il destrorso Mhp, oggi in coalizione con l’Akp. Sotto la guida di Bülent Ecevit il partito kemalista Chp si spostò verso sinistra, contrastato dal centrodestra moderato di Süleyman Demirel (con il Partito della giustizia che aveva sostituito il Dp).
Il crescere del caos portò a un secondo pronunciamento militare nel 1971, il cosiddetto golpe bianco: bastò un memorandum per cambiare le cose. Intanto si era diffusa nel paese la paura del comunismo, favorita dall’ancoraggio della Turchia nella Nato. Da Menderes la domanda chiave della politica turca non era cambiata: come far convivere panturchismo, islam e conservatorismo? In quella fase incerta scoppiò nel 1974 la contesa su Cipro con l’invasione del nord dell’isola da parte turca. Erano anni di fragili coalizioni sotto il controllo dell’esercito, in cui riuscì a infilarsi la prima formazione dichiaratamente riferita all’islam politico: il Msp (Partito per la salvezza nazionale) di Necmettin Erbakan. Il programma del Msp univa islam e nazionalismo culturale.
Erbakan era alleato con le confraternite, in particolare quella di Said Nursi che insegnava un islam interessato alla scienza e all’educazione delle masse popolari: speciale mistura di popolo e modernità. Nursi e i suoi ebbero per Erbakan la medesima funzione che avrà per Erdogan (divenuto dirigente locale del Msp) il movimento Hizmet di Fethullah Gülen. Evitando estremismi, Erbakan si posizionò al centro, basando la sua propaganda sul concetto di milli gorus (il punto di vista nazionale) incarnato in quattro direttive: cultura, industrializzazione, giustizia sociale ed educazione. L’islam era dissimulato come cultura nazionale.
Il terzo golpe
Alla fine degli anni Settanta la strategia della tensione aveva provocato almeno 3.000 vittime: fu il pretesto per il terzo golpe del 1980. L’esercito fece circa 650mila arresti e quasi 300mila condanne, prendendo direttamente in mano il potere e riscrivendo la costituzione. Guidati dal generale Evren e consapevoli degli errori precedenti, inserirono nella nuova dottrina ufficiale anche l’islam, inteso come base morale dei valori del nazionalismo. Per intercettare il consenso dei ceti moderati, la religione entrò così a far parte dell’eredità nazionale.
Fu un’opportunità per la confraternita di Gulen che progredì, con molti adepti tra gli ufficiali. Ciò fu poi utilizzato da Erdogan per divenire nel 2013 la causa di rottura fra i due. La nuova costituzione del 1982 inaugurò la terza Repubblica legittimando il controllo militare sulla democrazia turca: il consiglio di sicurezza nazionale ebbe valore costituzionale e permise l’attività solo di tre partiti nuovi, il Mcp dei generali, l’Hp laico kemalista e l’Anap (Madrepatria) di Turgut Özal. In un remake delle elezioni del 1950, quest’ultimo sorprese tutti vincendo il voto del 1983. La caratteristica di Özal era di unire temi di destra e sinistra in un contenitore conservatore.
Nell’Anap si erano rifugiati sia i liberisti occidentalizzati che gli orfani dell’Msp: nuova variante di unire le anime turche, di cui l’Akp attuale è l’ultima versione. Come Erbakan, anche Özal era membro di confraternite e sensibile al mondo cultural-religioso (mentre Erdogan non ne ha mai fatto parte). Sostenendo il liberismo, l’Anap favorì anche le attività sociali del terzo settore islamico che fiorirono con molteplici attività caritative ed educative. Özal aprì alla collaborazione con gli stati del Golfo per attrarre investimenti: il suo decennio rappresentò l’inizio della grande modernizzazione turca che Erdogan ha portato a termine.
Tuttavia mentre Özal auspicava una società aperta e democratica, gli islamisti cercavano qualcosa di più identitario. Così Erbakan riemerse fondando un nuovo partito (Rp, Partito del benessere) a cui aderirono coloro che non accettavano la normalizzazione ozaliana, tra i quali Erdogan, divenuto capo della sezione di Istanbul. Come Özal si era rivolto alla classe media e aveva usato il liberismo, così l’Rp utilizzò i temi di sinistra di equità sociale e welfare, rivolgendosi ai poveri urbanizzati delle periferie cittadine. Seguendo le direttive di Erdogan divenuto braccio destro del leader, il partito si strutturò con militanti di base porta a porta. Uno degli slogan dell’Rp era «la Turchia dimenticata», che già echeggia i forgotten dei sovranisti odierni. L’Rp entrò in parlamento nel 1991 per salire al 21 per cento nel 1995.
L’arrivo degli islamisti
Erdogan venne eletto sindaco di Istanbul nel 1994, amministrando bene al dire di tutti. Il sistema politico turco tuttavia sbarrava ancora la strada agli islamisti: negli anni Novanta si susseguirono fragili coalizioni presiedute da Tansu Çiller, la prima donna premier in Turchia, ma nel 1996 l’ennesima crisi la fece cadere e per la prima volta un islamista accedeva al potere. Erbakan non riuscì a durare più di un anno: sfidando i militari sul posizionamento internazionale della Turchia e su battaglie simboliche come il velo, innescò il quarto putsch del 1997 con cui l’esercito stilò la lista di “suggerimenti” minacciando l’intervento. L’Rp fu interdetto, Erbakan si dimise, così come Erdogan. Ma ormai il flusso politico islamista era troppo forte: già nel 2001 Erdogan fondava l’Akp che vinse subito le elezioni del 2002 senza bisogno di alleati. La lunga marcia degli islamisti turchi era finita e iniziava una nuova èra.
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