Netanyahu si è trovato imprigionato dalla occasionale, ma non per questo meno convergente, coalizione dei contrari, ostile alla tentazione del premier e i suoi alleati meno malleabili di mettere fuori gioco quello che è ritenuto il vero nemico di Israele. In cambio di questa, forzata, moderazione, il giocatore di poker Bibi getterà un’altra carta sul tavolo? Essere stati «mosci» sul versante iraniano significa reclamare mani libere a Gaza o sul fronte libanese?
La guerra in forma diventa guerra dei segnali. Israele reagisce, per ora, all’attacco da parte dell’Iran del 13 aprile, con una rappresaglia forse ancora più simbolica, che peraltro trasmette un messaggio noto al regime degli ayatollah: possiamo colpirvi in profondità. Questo dicono i droni lanciati nei cieli iraniani, si vedrà se da fuori o dall’interno del paese, come avvenuto tempo fa per opera di nuclei di oppositori coordinati in loco dall’intelligence israeliana: gli “infiltrati” evocati, anche nella circostanza odierna, da Teheran.
In ogni caso, se la cosa si chiuderà qui, una riposta limitata, «moscia» come ha polemicamente sottolineato il falco di estrema destra Ben Gvir, ministro fautore di una muscolare esibizione della forza sia sul fronte palestinese e libanese sia su quello iraniano. Valutazione condivisa, con sollievo però, dagli stessi iraniani, che paiono escludere ritorsioni d’urgenza e, forse, non avrebbero nemmeno pubblicizzato l’«incidente», termine che punta a occultare i buchi nella sicurezza, se gli Usa non avessero comunicato al mondo l’avvenuto strike.
L’attacco non ha prodotto danni ma colpire l’area di Esfahan non è, comunque, cosa di poco conto. Certo non è regalo gradito dalla guida suprema Khamenei, nel giorno in cui compie ottantacinque anni. Se la città, con le sue moschee e la grande piazza, è nota per essere uno dei capolavori dell’architettura islamica dell’era safavide, i dintorni sono assai “sensibili”.
In zona vi sono siti legati al programma nucleare iraniano – il vero incubo per la dottrina della sicurezza israeliana che ritiene vitale il mantenimento della deterrenza in quel settore – come quello di Natanz, nel quale si arricchisce l’uranio. Esfahan è anche sede del blindatissimo quartier generale dal quale le forze armate iraniane dirigono le operazioni di guerra, il cosiddetto “bunker fine del mondo”. Nelle vicinanze vi sono anche gli impianti di produzione di missili e droni. L’area, dunque, non è caratterizzata solo da svettanti cupole e maioliche azzurre ma è anche il cuore dell’organizzazione e della produzione militare iraniana.
Le preoccupazioni Usa
È su questo terreno militarmente denso e politicamente significativo, che Israele ha applicato la legge del taglione – nella versione, giuridicamente più puntuale del più noto “occhio per occhio, dente per dente”, che recita: “Si farà a lui come egli ha fatto all’altro ... gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro”.
Così a drone risponde drone, a base – come quella attaccata nel Negev dagli iraniani – risponde base: quella iraniana presa di mira ospita anche i Tomcat consegnati dall’allora amico americano allo scià. Altri tempi. Ma, e proprio qui è il punto, non certo scagliando gli F35 sui reattori o altri obiettivi di rilevante portata.
Scelta compiuta perché, nonostante la tentazione dell’ala dura del Likud e di quella nazional religiosa e suprematista a proposito di una replica dell’operazione Osirak contro l’Iraq di Saddam, le pressioni americane hanno pesato. Joe Biden aveva detto esplicitamente a Netanyahu che non avrebbe condiviso l’operazione, che doveva accontentarsi della reazione “simbolica” degli iraniani all’attacco portato da Tsahal in Siria contro i Pasdaran, che non avrebbe potuto contare sul sostegno americano perché un attacco in grande stile avrebbe potuto produrre l’incontrollabile deflagrazione del conflitto.
In sintesi: Israele doveva farsi carico degli interessi strategici Usa. Tanto più mentre l’amministrazione Biden, attraverso due voti – quello al Consiglio di sicurezza contro l’adesione dello stato palestinese all’Onu, quello dei democratici al Congresso sugli aiuti a Tel Aviv – si schiera ancora una volta accanto allo storico alleato.
E perché la sbandierata coalizione tra mondo arabo sunnita e Israele in funzione antiraniana, non ha ancora connotati stabili in un quadro in cui la questione palestinese è drammaticamente riemersa dall’angolo in cui era stata confinata e lo scontro allargato tra Iran e proxy da una parte e lo stato ebraico dall’altro, rischia di diventare un problema per i paesi arabi che dovrebbero farvi parte.
La Giordania ha buona parte della popolazione di origine palestinese, l’Egitto ha represso ma non estirpato i movimenti islamisti, l’Arabia Saudita ha bisogno di pace interna per imporre senza troppi scossoni la sua modernizzante trasformazione ed evitare l’infamante accusa di essere non, come essa si vuole, la custode dei luoghi santi, ma la traditrice della «Gerusalemme musulmana» evocata anche recentemente da Khamenei. Nemmeno lo spregiudicato e manovriero bin Salman può permettersi di vedere il regno additato come tale mentre lo sta conducendo verso l’ambiziosa sfida di Vision 2030.
La Cina e i paesi europei
Analoghe pressioni sono venute anche da altri attori, dalla Cina ai paesi europei, assai preoccupati dall’esplosione di un conflitto destinato, tra le altre cose, a generare contraccolpi economici globali. Il Golfo, incendiato dalle reazioni di Iran e degli Houti non sarebbe, propriamente, per le implicazioni a catena, una vicenda locale. Insomma, Netanyahu si è trovato imprigionato dalla occasionale, ma non per questo meno convergente, coalizione dei contrari, ostile alla tentazione del premier e i suoi alleati meno malleabili di mettere fuori gioco quello che è ritenuto il vero nemico di Israele.
In cambio di questa, forzata, moderazione, il giocatore di poker Bibi getterà un’altra carta sul tavolo? Se non il via libera – ancora osteggiato dagli Usa per voce di Blinken e dall’intera comunità internazionale – invocherà il diritto di procedere, comunque, alla resa dei conti a Rafah? Possibile che il deciso fautore della politica del fatto compiuto abbia abdicato su entrambi i fronti, optando per non punire gli iraniani che hanno avuto l’ardore di violare il tabù strategico per cui chi attacca Israele si vedrà combattuto duramente e senza tregua, e rinunciato a liquidare Hamas colpendola a Rafah, cosa che il longevo e discusso premier equipara al «far perdere la guerra a Israele»?
L’interrogativo è questo: essere stati «mosci» sul versante iraniano significa reclamare mani libere a Gaza o sul fronte libanese? È questo l’inconfessabile nodo, da sciogliere, magari gordianamente, con la tagliente lama di Swords of Iron?
Quanto all’Iran, sembra voler evitare una replica degna, almeno nella trama, degli eterni duellanti conradiani. Fa sapere, attraverso la Russia, che non intende favorire l’escalation. I Pasdaran, ormai veri pilastri del regime, fanno, però, balenare preventivamente, l’ipotesi di «riconsiderare» la politica nucleare se «il regime sionista» mettesse nel mirino il programma atomico di Teheran. Al di là dell’episodio di Esfahan, appena concluso, la fine della storia sembra ancora lontana.
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