- Maati Monjib è uno storico attivista per i diritti umani in Marocco. La sua detenzione è terminata appena 5 mesi fa, lo scorso marzo, quando è stato scarcerato e messo in libertà provvisoria dopo 20 giorni di sciopero della fame.
- La storia di Monjib è uno spaccato importante sul Marocco e sulla situazione dei diritti umani nel paese. È in questo contesto che è avvenuta la detenzione di Ikram Nazih, la cittadina italo-marocchina condannata lo scorso 28 giugno a 3 anni di carcere per blasfemia.
- «Il destino di Ikram dipenderà dal contesto politico», dice Monjib. Non è da escludere però la possibilità che che il governo ponga invece fine all'episodio in maniera repentina. Esaurita la spinta nazionalista l'esecutivo di di Rabat potrebbe, come già accaduto, archiviare il caso.
Maati Monjib può vantare un triste primato: è uno dei primi cittadini marocchini colpiti dal software Pegasus. Professore di storia politica all’Università di Rabat e fondatore di Freedom Now, comitato per la libertà di informazione e espressione, è una figura intellettuale con un storia di attivismo decennale in Marocco. E il suo impegno per i diritti umani lo ha spinto nelle maglie della repressione del governo marocchino.
Amnesty International già nel 2017 segnalò che il telefono di Monjib era stato un obiettivo del software-spia israeliano – in queste settimane sulle prime pagine di tutto il mondo per il suo uso disinvolto da parte di numerosi governi – quando il professore era già stato colpito anche dalla giustizia marocchina. La sua detenzione è terminata appena 5 mesi fa, lo scorso marzo, quando è stato scarcerato e messo in libertà provvisoria dopo 20 giorni di sciopero della fame.
La storia di Monjib è uno spaccato importante sul Marocco e sulla situazione dei diritti umani nel paese. È lo stesso contesto che ha portato alla detenzione di Ikram Nazih, la cittadina italo-marocchina condannata lo scorso 28 giugno a 3 anni di carcere e al pagamento di una multa per aver condiviso un post su Facebook che, con un gioco di parole, trasformava la sura 108 del Corano, detta “sura dell’abbondanza”, in “sura del whisky”.
«La situazione dei diritti umani in Marocco è la peggiore dalla prima metà degli anni Novanta», dice Monjib. «Solo le accuse sono cambiate: prima, negli anni Sessanta e Ottanta, erano politiche mentre ora dominano tre temi: sesso, denaro e collaborazione con i paesi stranieri. Sono capi di imputazione in sintonia con la popolazione che per in maggioranze è conservatrice e nazionalista».
La vicenda di Monjib è un caso esemplare. Il 29 dicembre del 2020 è stato arrestato in un popolare ristorante della capitale. «La telecamera del locale era collegata al sistema di sorveglianza stradale di Rabat. Mi hanno riconosciuto quando mi sono tolto la mascherina per mangiare», racconta. «Così sono venuti a prendermi, mi hanno prelevato dal ristorante senza farmi nemmeno finire la prima portata. Una cosa che per me rappresenta un pericolo perché sono diabetico».
Le accuse
L’inchiesta per cui le autorità marocchine hanno disposto l'arresto di Monjib è relativa all’accusa di riciclaggio di denaro sporco. Il mese dopo, il 27 gennaio 2021 è stato condannato a un anno di carcere sulla base di un nuovo dossier in cui vengono formulate a suo carico accuse di «attentato la sicurezza interna dello stato», «frode» e «altri reati».
La campagna per la sua liberazione e lo sciopero della fame portato avanti dall’attivista, complice la sua notorietà, hanno reso possibile la sua scarcerazione in tempi piuttosto rapidi, soprattutto a queste latitudini. Ma la vicenda giudiziaria è tutt’altro che conclusa.
Perché in Marocco la repressione non risparmia nemmeno chi ha un doppio passaporto. Lo abbiamo visto nel caso di Ikram, cittadina italo-marocchina, e lo rivediamo anche ora con la vicenda di Monjib, cittadino marocchino e francese.
«Paradossalmente credo che nel mio caso il passaporto francese abbia provocato l’effetto contrario», dice. «Non solo non mi ha evitato il carcere ma è diventato un pretesto per sostenere che probabilmente non sono fedele al Marocco e alla monarchia. Credo che ora solo il passaporto Usa possa veramente aiutarti».
Monjib conosce anche il caso di Ikram, il cui processo di appello è previsto, come confermato dalla Farnesina, nelle prossime settimane, e ne conferma gli aspetti di delicatezza, sia sul piano giuridico sia su quello diplomatico.
«Il destino della ragazza dipenderà dal contesto politico», spiega. «Dei contatti discreti ed efficaci del governo italiano con le autorità marocchine potrebbero aiutare». Non è da escludere però che l’esecutivo decida di porre fine all’episodio anche in maniera repentina. Il governo di Rabat, esaurita la spinta nazionalista potrebbe, come già accaduto, archiviare il caso.
La tensione con l’Europa
Il passaporto europeo rischia di non essere più un fattore di protezione per i cittadini marocchini anche perché i rapporti tra Europa e Marocco negli ultimi mesi hanno conosciuto livelli crescenti di tensione. Lo scorso dicembre la dichiarazione dell’allora presidente americano Donald Trump ha riconosciuto la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale in cambio della normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele. Da allora i legami tra l’Europa e le autorità di Rabat non sono più gli stessi.
«Il regime crede, con l’appoggio di Israele e della lobby filo-israeliana in America, di poter fare a meno dell’Unione europea», osserva Monjib. «Ancora di più perché il Marocco aiuta l’Ue a combattere il terrorismo e le migrazioni».
Da qui le tensioni degli ultimi mesi. Lo scorso marzo il ministro degli Esteri marocchino Nasser Bourita ha chiesto al governo di sospendere le comunicazioni con tutte le entità tedesche a Rabat, citando «profondi disaccordi» con Berlino. Una reazione dovuta alle critiche che il governo tedesco aveva fatto nel dicembre del 2020 alle dichiarazioni di Trump.
La frontiera a Ceuta
A maggio, poi, c’è stato un altro episodio. Questa volta con la Spagna. Il Marocco ha aperto le frontiere provocando l’arrivo di 8mila migranti in due giorni nell'enclave spagnola di Ceuta dopo che le autorità di Madrid avevano accolto, in un ospedale di Logroño, Brahim Gali, il leader del Fronte Polisario, il movimento di liberazione del Sahara occidentale, nemico storico del Marocco.
Questo nuovo scenario diplomatico, a livello interno, non ha fatto altro che acuire la repressione che il governo di Rabat porta avanti nei confronti di chi non è allineato.
«La diffamazione degli oppositori democratici è diventata un pilastro essenziale del sistema di repressione», dice Monjib. «Le persone hanno più paura di vedere notizie o una propria foto sulla stampa ufficiale che di passare qualche mese in prigione. Diversi attivisti hanno interrotto le loro attività politiche dopo aver ricevuto minacce di diffamazione».
Così è finita in carcere nel 2019 la reporter Hajar Raissouni, con l’accusa di aborto illegale e rapporti sessuali consumati al di fuori del matrimonio. La reporter è stata poi rilasciata dopo la grazia concessa da Re Mohammed VI.
E poi c’è la storia di Omar Radi arrestato nell’estate del 2020 dopo aver denunciato, in collaborazione con Amnesty International, l’uso da parte delle autorità marocchine del malware di produzione israeliana Pegasus.
Lo scorso 21 luglio, nei giorni in cui l’affaire Pegasus è finito su tutte le pagine dei giornali internazionali, Radi è stato condannato a sei anni di carcere e al pagamento di una multa da 200mila dirham (circa 20mila euro).
La spada di Damocle della repressione, insomma, continua a minacciare tutti. Anche Monjib.
«La campagna portata avanti dalle organizzazioni per i diritti umani e dalla stampa mi ha aiutato ma se gli attacchi nei miei confronti ricominceranno sarò costretto a riprendere lo sciopero della fame» conclude l’attivista franco-marocchino. «Amo la vita ma senza libertà e dignità non vale la pena di essere vissuta».
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