Da aprile una ondata di arresti ha colpito vlogger e influencer, a maggior ragione se donne: per il regime TikTok è un problema di moralità pubblica. Prima lo erano Twitter e Facebook, come ha dimostrato l’incriminazione di Patrick Zaki.
- Le autorità egiziane da aprile hanno arrestato almeno 13 persone tra vlogger e influencer. La nuova ondata di arresti amplifica, in direzione dei social, la politica già in atto contro gli attivisti politici e la stampa online.
- Negli ultimi mesi la repressione egiziana si è spostata sulle utenti di TikTok, piattaforma che per il regime rappresenta un problema di moralità pubblica.
- Nel caso dell’arresto della vlogger Menna Abdel Aziz, accusata di «dissolutezza» dopo aver denunciato di essere stata vittima di violenza su TikTok. si incrociano aspetti politici, religiosi e di genere.
Sul suo canale YouTube, dove ha conquistato più di 370mila followers con i suoi pezzi comici, si fa chiamare Super Maher. Il suo vero nome è Ahmed, è egiziano e proprio per la sua attività social lo scorso maggio è stato arrestato presso la sua abitazione di Sherbeen, nel governatorato di Dakahlia, che si trova a nordest del Cairo. I suoi video ad alto tasso di ironia non sono piaciuti alle autorità cairote che lo accusano di incitamento alla dissolutezza o all’immoralità utilizzando Internet.
Un solco percorso sempre più abitualmente dal regime, come dovremmo ricordare noi italiani: Patrick Zaki, il ricercatore egiziano che frequenta il master di Gender studies all’università di Bologna, è finito dietro le sbarre al suo rientro al Cairo lo scorso febbraio. Incriminato con diversi capi d’accusa, che vanno dalla pubblicazione di notizie false all’incitamento pubblico a commettere atti terroristici, anche sulla base di alcuni post pubblicati su Facebook, contenuti che la difesa ha sempre ritenuto falsi.
Il controllo da parte delle forze di sicurezza e dei servizi segreti, in particolare quelli afferenti al ministero dell’Interno, è ormai una prassi assodata. Il controllo è maniacale anche per le strade del paese: è sufficiente la condivisione di una notizia pubblicata da un giornale non gradito al regime per finire dietro le sbarre. Inoltre, la vaghezza con cui la procura egiziana ha fornito i contenuti dei presunti post di Zaki, così come la genericità dei capi di imputazione, non deve stupire.
Sono solo due istantanee di una repressione che in Egitto ha già provocato 60mila arresti politici dal 2013, quando l’allora capo delle forze armate Abdel Fattah al-Sisi ha preso il potere con un colpo di stato. I contenuti sul web erano già ampiamente monitorati dalle autorità egiziane, ma oggi i tentacoli del regime arrivano ovunque e ormai per schivare fermi, arresti e perquisizioni non basta più evitare i commenti esplicitamente politici.
Lo dimostra l’ultima ondata di arresti, che dopo Ahmed ha coinvolto numerosi altri volti noti del web concentrandosi in particolare contro il social network del momento: TikTok. La piattaforma di proprietà cinese, che per Donald Trump rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale, in Egitto è invece elevata al rango di pericolo per la moralità pubblica.
«TikTok è diventato rapidamente popolare in Egitto, in particolare nel 2020, quando la pandemia, precludendo altre forme di intrattenimento, ha costretto i giovani a trascorrere molto tempo a casa», spiega Joey Shea, ricercatrice del Timep, il Tahrir institute for middle east policy. «Inoltre è chiaro che questi arresti assecondano la base conservatrice del regime perché tentano di controllare i corpi delle giovani donne».
A maggio 2020, la procura generale egiziana ha diramato un comunicato secondo il quale «forze del male» stanno abusando del «nuovo spazio elettronico virtuale» per «distruggere la nostra società, demolirne i valori, i principi e rubare la sua innocenza».
Secondo una stima di Human rights watch, organizzazione internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, sarebbero già quindici (12 influencer donne e tre “complici” uomini) gli arresti effettuati negli ultimi cinque mesi, con accuse di vario genere che in alcuni casi comprendono persino l'incitamento alla prostituzione. Lo scorso 27 luglio sono state condannate a due anni di detenzione più una multa di 300mila sterline egiziane (circa 16mila euro) le prime due TikToker: Haneen Hossam e Mowada al-Adham.
Haneen è stata arrestata nella sua casa del Cairo e ora è detenuta nel carcere cairota di al-Qanater. «A causa anche delle restrizioni imposte nelle carceri per il Covid-19, i suoi genitori l’hanno potuta vedere solo durante l’udienza», dice Makarios Lahzly, uno degli avvocati, che ha seguito Haneen Hossam all'inizio della sua detenzione. «La sua famiglia è molto spaventata e ha deciso di non parlare più con la stampa. È una situazione difficile e nessuno sa veramente perché il governo stia colpendo queste ragazze».
Haneen e Mowada contano rispettivamente 1,3 milioni e 3 milioni di follower sulla piattaforma, dove ballano sulle note della musica popolare locale, raccontano la loro quotidianità, mostrano i loro nuovi e sgargianti outfit. L'incriminazione di Hossam è arrivata sulla base di un filmato in cui invitava le utenti a postare dei video sull’app Likee per guadagnare dagli user generated content (contenuti generati e condivisi da altri utenti). Video che, secondo la magistratura egiziana, indurrebbero a comportamenti “audaci e poco consoni al buon costume” del paese.
«In Egitto nessuna legge proibisce a un cittadino di guadagnare dalla condivisione di video sul web a meno che non si compiano altri reati durante la produzione e la diffusione di questi contenuti. Invece, durante le indagini su Mawada e Haneen, la frase “guadagnare su Internet” è stata ripetuta più volte come se fosse un’accusa», ha spiegato al giornale egiziano Mada Masr Lobna Darwish, legale dell’Eipr, l’Egyptian Iniziative for personal rights, il think tank in cui lavorava anche Zaki prima di trasferirsi a Bologna.
Emerge anche una questione di genere: «Le donne lavoratrici e della classe media cercano di trovare opportunità di lavoro e fonti di reddito utilizzando internet, dove hanno relativamente più libertà». L’accusa sostiene anche che gli imputati usavano il web «non come uno spazio per scambiarsi opinioni, ma dove invocare la violazione delle libertà personali, del sistema e della moralità pubblica».
Le condanne e le accuse di questi mesi sono basate su alcuni articoli della legge sui crimini informatici, un controverso dispositivo del 2018 che ha di fatto ampliato i poteri delle autorità egiziane e legittimato diverse limitazioni già abitualmente imposte. La normativa, infatti, ha aumentato la già ampia discrezionalità governativa nel monitorare, censurare e bloccare, siti web, blog e account social in presenza di contenuti che violino norme politiche, sociali o religiose vagamente definite.
«Arrestare donne e ragazze per motivi molto vaghi, magari semplicemente per aver pubblicato video e foto di se stesse, è discriminatorio e viola direttamente la loro libertà di espressione», sostiene Rothna Begum, ricercatrice sui diritti delle donne di Human rights watch, in un comunicato diffuso recentemente dall'organizzazione internazionale per i diritti umani. «Sorvegliare la condotta pacifica delle donne online sa di un nuovo sforzo per controllare l'uso degli spazi pubblici da parte delle donne».
Il web ha sempre avuto un ruolo importante nell’attivismo egiziano dalla rivoluzione del 2011 a oggi. Dopo il colpo di stato del 2013 è diventato uno spazio ancora più rilevante perché, a causa della repressione, manifestare il proprio dissenso per le strade è diventato impossibile.
Così il regime, negli anni, ha tentato di limitare anche questo ambito. Per esempio, dal 2017 decine di migliaia di siti sono stati bloccati nel paese e chi circuisce le restrizioni con la tecnologia Vpn rischia l’arresto. «In questo momento il web è uno spazio conteso tra lo stato e i suoi oppositori», dice Hossam el-Hamalawy, storico attivista di Piazza Tahrir che ora vive a Berlino. «Lo stato, da tempo, sta cercando di controllarlo sia attraverso la censura, gli arresti, le leggi draconiane. Ma con scarso successo perché sul web è ancora possibile esprimersi».
Diversi attivisti della rivoluzione hanno lasciato il paese per sfuggire all’arresto e comunicano con applicazioni criptate per sfuggire al controllo degli apparati di sicurezza. «La legge sui crimini informativi riguarda anche me nonostante io viva all’estero», dice l’attivista. «Ho migliaia di follower su Twitter, posso essere incriminato in contumacia e i servizi di sicurezza hanno minacciato diverse volte la mia famiglia».
Tra le TikToker arrestate, il caso che ha provocato molto scalpore tra l’opinione pubblica egiziana riguarda la vlogger diciassettenne Menna Abdel Aziz (il suo vero nome è Aya), che su TikTok e Instagram ha raccontato di essere stata vittima di violenza. I suoi aguzzini sono stati arrestati, ma dopo un interrogatorio a finire in carcere con l'accusa di ”dissolutezza” è stata la stessa Abdel Aziz. Gli inquirenti non hanno rivelato i dettagli della loro indagine sulla ragazza, ma secondo i media locali il suo arresto e le accuse contro di lei sono state inizialmente motivate dal suo aspetto, dalla scelta dell’abbigliamento e dai contenuti dei social media, che le autorità hanno ritenuto sessualmente allusivi e socialmente sovversivi.
Attualmente la ragazza si trova in un centro per vittime di violenza ma le indagini su di lei continuano. Quello che è accaduto ad Abdel Aziz evidenzia un altro aspetto chiave di questa nuova stagione repressiva, ossia la volontà di colpire più o meno esplicitamente l’emancipazione femminile. L’attenzione alla pubblica morale da parte del regime è dovuta anche alla necessità di non lasciare spazio all’islam politico (la cui diramazione più importante, i Fratelli musulmani, è stata duramente repressa dopo il colpo di stato del 2013) sui temi che riguardano «la decenza» e il comportamento delle donne.
«Lo stato egiziano ha un’ideologia religiosa conservatrice, anche se ama presentarsi al mondo esterno, specialmente all’occidente, come uno stato laico che combatte i terroristi reazionari islamici», dice l’attivista el-Hamalawy.
«Questi arresti non servono solo a placare i segmenti conservatori della società e a distogliere l’attenzione dai fallimenti economici e politici di Sisi, ma fanno anche parte di una strategia per cementare un ordine sociale basato sull’approccio autoritario, patriarcale e militarizzato». Inoltre, la violenza di genere è un fenomeno purtroppo ancora estremamente diffuso nel paese. Secondo uno studio del 2017 condotto da due gruppi, Un Women e Promundo, quasi due terzi degli uomini in Egitto ha dichiarato di aver molestato sessualmente donne o ragazze per strada. Più di tre quarti di loro hanno anche affermato che «l’abito provocatorio» di una donna rappresentasse «un motivo legittimo di molestie».
L’arresto di Menna Abdel Aziz arriva in un momento in cui la società civile iniziava a organizzarsi per contrastare le violenze di genere. A inizio luglio decine di donne hanno usato i social per denunciare un facoltoso studente egiziano dell’Eu Business School di Barcellona che in seguito a tanto clamore è stato arrestato. In seguito il governo cairota ha approvato una proposta di legge per proteggere l'identità delle donne che denunciano le violenze e persino al-Azhar, la massima autorità dell’islam sunnita, ha incoraggiato le donne a denunciare le violenze. Ma il caso di Abdel Aziz dimostra che quello che dalla stampa locale è stato considerato come il #metoo egiziano non sembra valere per le donne che arrivano da ceti sociali modesti. «C’è una chiara dinamica di classe in questa ondata di arresti», continua Shea del TIMEP. «Mentre il sessismo e la misoginia esistono in tutte le classi, le donne benestanti godono di maggiori protezioni sociali ed economiche rispetto alle loro controparti della classe media e della working class».
L’arrivo di influencer da ceti popolari evidenzia anche una trasformazione culturale e sociale importante nella società egiziana. «Oggi, non solo le donne più esposte ad alti livelli di istruzione e con grande capitale sociale, ma anche quelle meno privilegiate hanno maturato una consapevolezza del fatto che la violenza sessuale sia un crimine e la denunciano attraverso i mezzi a disposizione», dice Lucia Sorbera, studiosa della storia delle donne e di genere nei paesi arabi all’Università di Sidney.
«Si tratta di un cambiamento importante che arriva da un secolo di lotte femministe e dalle manifestazioni contro le violenze di genere che si sono svolte anche dopo la rivoluzione del 2011. È chiaro che il regime abbia molto da temere da una simile emancipazione».
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