La violenza politica negli Stati Uniti si manifesta in forme sempre nuove, ma quello che rimane uguale in ogni episodio è la feroce battaglia retorica sull’incitamento all’azione, cioè sulle presunte responsabilità morali dell’accaduto.
Che l’assegnazione della colpa non si debba limitare all’attentatore, ma vada distribuita a chi gli ha messo in testa idee omicide, è una delle rarissime questioni su cui domina un consenso bipartisan. L’identità della vittima di turno cambia soltanto il segno politico delle accuse e il lasso di tempo in cui si condanna la violenza senza fare distinzioni diventa ogni volta sempre più breve.
L’attentato a Donald Trump, nel quale è rimasta uccisa una persona, oltre allo sparatore, il ventenne Thomas Matthew Crooks, ha generato due effetti immediati. Il primo è rinvigorire la narrazione del martirio nella macchina elettorale del MAGA, che sta monetizzando con i finanziamenti e produce a tempo di record merchandise che glorifica l’eroe sopravvissuto che invita il suo popolo a combattere. Il linguaggio profetico della dichiarazione in cui Trump ringrazia Dio per «avere impedito che succedesse l’impensabile» è perfetto per alimentare l’atmosfera.
Il secondo, strettamente connesso al primo, è l’accusa ai democratici di essere loro i veri colpevoli del misfatto, quelli che hanno cosparso il dibattito di benzina, ed era inevitabile che qualcuno prima o poi accendesse un fiammifero.
Il senatore J.D. Vance, uno dei più quotati per il ruolo di candidato vicepresidente con Trump, ha scritto che quello che è successo «non è un incidente isolato» ma la conseguenza della campagna di Joe Biden, che dipinge l’avversario come una minaccia per la democrazia e questo legittima chi pensa di eliminarlo dalla corsa a colpi di fucile: «Questa retorica ha portato direttamente al tentato omicidio del presidente», ha scritto su X.
Il deputato repubblicano Mike Collins ha scritto che il procuratore distrettuale della contea di Butler «dovrebbe subito incriminarlo per avere incitato un assassinio»; il deputato Steve Scalise, che nel 2017 è stato vittima di un attentato classificato come terrorismo domestico dall’Fbi, ha puntato il dito contro la «retorica incendiaria» dei democratici.
Il mondo trumpiano sta mettendo in circolo ovunque i clip del rappresentante democratico Dan Goldman che in diretta tv dice che Trump «deve essere eliminato» e quello di Nancy Pelosi che si esprime con parole pressoché identiche. È stata rispolverata una frase recente di Biden che letta alla luce dell’attentato suona incredibilmente minacciosa: «Basta parlare del dibattito. Dobbiamo mettere Trump nel mirino».
Per non lasciare correre le insinuazioni, i democratici, un attimo dopo aver condannato brevemente l’accaduto, ricordano che Trump è il padre del più orribile episodio di violenza eversiva della storia recente, avendo incitato la folla che il 6 gennaio 2021 ha preso d’assalto il Congresso e voleva impiccare il vicepresidente, Mike Pence, colpevole di avere certificato il risultato delle elezioni.
È probabile che nell’immediato questa schermaglia abbia l’effetto immediato di consolidare il vantaggio che Trump aveva già nei sondaggi su Biden, ma le implicazioni nel lungo periodo sono molto più devastanti: contribuire a una conversazione che si nutre di odio, vittimismo, rancore.
La questione coinvolge l’intero spettro politico. Nel 2011, dopo l’attentato alla deputata democratica Gabby Giffords in Arizona, una testata di area democratica ha coniato l’espressione “terrorismo stocastico” per indicare una forma di violenza politica in cui i vari attentatori solitari si accaniscono contro obiettivi imprevedibili, ma in realtà sono mossi da un clima che li radicalizza e li porta a sparare.
In quel caso, l’idea era scaricare la colpa su Sarah Palin, ex governatrice dell’Alaska e animatrice del vociante movimento del Tea Party, che aveva fatto circolare una mappa degli Stati Uniti che segnalava i candidati al Congresso che dovevano essere sconfitti alle elezioni di midterm, e fra questi c'era Giffords.
Il fatto è che erano indicati con un puntatore che ricordava il mirino di un fucile (l’episodio ricorda molto una delle accuse di oggi), dunque il passo dalla lotta politica a quella armata era breve.
Si è scoperto poi che l’attentatore di Giffords era una persona profondamente disturbata che non sapeva nulla di tutto questo, non aveva visto mappe, non aveva ascoltato comizi, non seguiva il dibattito politico.
Ma nel frattempo diversi autorevoli esperti di terrorismo e accademici avevano ripreso la nozione di “terrorismo stocastico”, conferendole una legittimità scientifica che non aveva, visto che non ci sono prove del nesso di causalità fra gli attentati politici e un generico clima di odio instillato da questo o quel leader.
Tuttora l’espressione viene rispolverata dopo ogni attentato, ed è entrata nel linguaggio della letteratura specialistica, come se fosse una cosa seria, mentre invece è l’ennesimo esempio del dominio della logica della fazione su quella della realtà.
A colpi di manipolazioni, strumentalizzazioni e meccanismi di auto-vittimizzazione per guadagnare consensi, i partiti americani si sono infilati in un perverso ragionamento circolare in cui mostrare il presunto collegamento fra la violenza e una certa retorica politica diventa a sua volta un’arma retorica che alimenta il ciclo senza fine della violenza.
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