Malgrado i tentativi di russificazione, anche nel Caucaso – regione detonatrice di vari conflitti – la situazione sembra sfuggire di mano. L’articolazione etno-religiosa della Russia obbliga il Cremlino a rivedere le sue politiche. Perché come in Ucraina, anche qui i russi non sono egemoni
Il terrorismo jihadista continua a colpire la Russia anche se a Mosca si vorrebbe ritenersi immuni perché amici dell’islam e del global south. In realtà la lotta per l’omologazione e la russificazione che Putin sta ferocemente svolgendo in Ucraina («l’Ucraina non esiste, sono tutti russi…») trova il suo oggettivo limite nella composizione molto articolata delle nazionalità nell’immenso paese.
In fondo questo è stato il problema russo da sempre, fin dallo zarismo: cercare qualcosa che unisca i vari popoli. Il comunismo sovietico è stato certamente un collante più forte del potere zarista, basato su una miscela dinastica e nazional-religiosa. Ma oggi ci si deve arrangiare con ciò che si ha e che non sempre funziona.
La storia della Cecenia fa da modello: un pezzo di paese governato con pugno di ferro essenzialmente da una famiglia, un modo totalmente diverso da ciò che accade nelle altre repubbliche, addirittura con il permesso di avere leggi proprie marchiate da uno stampo religioso molto pronunciato.
Il Daghestan non è un universo così lontano da Grozny: islam, nazionalismo, scossoni secessionisti o autonomisti, conflitti etno-religiosi.
Il Caucaso è sempre stato un mondo convulso ed è facile immaginare come la recente guerra della sua parte meridionale tra Azeri e Armeni abbia fatto da detonatore a simili crisi poco più a nord. Il Daghestan è anche la più grande delle repubbliche del Caucaso settentrionale governate dalla Russia: oltre alla Cecenia vi sono anche l’Inguscezia, l’Ossezia, la Cabardino-Balcaria, l’Ossezia settentrionale e la Circassia.
Sono terre mitiche di feroci scontri e grandi romanzi storici, che prendono spunto dal “grande gioco”, cioè la lunga sfida tra inglesi e russi in quelle terre, durata oltre un secolo.
Paradossalmente i russi – Mosca è certamente più vicina di Londra – si sentono dei “quasi autoctoni” mentre in realtà lo sarebbero molto di più i turchi, che furono loro agguerriti avversari con l’Impero Ottomano (e oggi vorrebbero riprendere piede).
Molte guerre più vaste hanno avuto un loro inizio o corollario caucasico, tanto che Hitler lanciò le sue truppe alla conquista della regione per raggiungere il Mar Caspio ricco di petrolio, sperando anche di sfruttare le innumerevoli ribellioni anti-russe della regione.
Di quella avventura bellica, com’è noto finita male dopo la sconfitta a Stalingrado, restano le immagini degli alpinisti nazisti che piantano la bandiera con la svastica sulla cima dell’Elbrus la montagna più alta, in Cabardino Balcaria.
Dopo la guerra i sovietici ripristinarono l’ordine in tutta l’area senza più subire influenze concorrenti. Alla fine dell’Urss tuttavia molte cose si sono rimesse in movimento: lo spirito autonomistico delle varie nazionalità si è fatto sentire varie volte e non è la prima volta che nel Daghestan e nelle altre repubbliche accadono episodi di violenza.
Va ricordato il terribile assalto alla scuola elementare di Beslan in Ossezia, con più di 300 vittime tra cui più di 180 bambini. Le due guerre di Cecenia hanno infiammato tutto il Caucaso settentrionale con un grande afflusso di armi.
Non stupisce che l’Isis stia tentando di inserirsi in tali fratture storiche, cercando manovalanza per le sue avventure jihadiste. Già si erano visti tentativi durante la guerra di Siria, quando combattenti caucasici si erano mescolati ad altri, come afghani, pakistani, uiguri ecc., schierati su entrambi i lati del fronte.
Si dimostra una volta di più come la guerra sia un ingranaggio poco controllabile che può fare proseliti in maniera insolita o imprevista. Putin sarà ora costretto a mettere in campo una politica di coesione e dialogo in un territorio difficile e frastagliato in termini etno-religiosi: il metodo ceceno non può essere esportato dovunque.
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