- Scrittrice, sociologa, femminista, antimilitarista e militante, Selek è una donna scomoda al potere a causa delle sue ricerche sui curdi che si sono uniti alla lotta armata e per il suo impegno in favore di donne, minoranze e ambiente.
- Arrestata nel 1998 e accusata di aver commesso un attentato in un bazar di Istanbul che non è mai esistito, Selek è nuovamente sotto processo nonostante quattro assoluzioni.
- Il suo caso è l’emblema dei problemi della giustizia in Turchia, ma anche delle storture di un sistema politico che non rispetta la divisione democratica dei poteri che hanno iniziato a manifestarsi ben prima dell’arrivo al potere di Recep Tayyip Erdogan.
La storia di Pinar Selek potrebbe essere materiale per un thriller di successo, se non fosse tragicamente vera. Sociologa, scrittrice femminista, antimilitarista e militante, Selek è da sempre un personaggio scomodo per il mondo politico turco e con i suoi lavori è riuscita a inimicarsi tanto i partiti di destra, quanto quelli di sinistra.
Da 25 anni è sotto processo per crimini che non ha commesso e per legami ugualmente mai comprovati con il Partito dei lavoratori curdo (Pkk), considerato dalla Turchia un’organizzazione terroristica. Eppure dopo diverse assoluzioni, la scrittrice, esule in Francia, rischia ancora una volta di essere condannata in contumacia all’ergastolo.
La sentenza è attesa per il 31 marzo, ma una condanna non basterà a mettere fine al suo lavoro di attivista.
La dissidenza d’altronde è un tratto distintivo della sua famiglia. Il padre era un difensore dei diritti umani finito in carcere per cinque anni quando lei era bambina, mentre il nonno è stato il fondatore negli anni Cinquanta del partito comunista turco. La loro casa a Istanbul è stata per lungo tempo uno spazio di incontro aperto a tutti, nonché un luogo di formazione per la stessa Selek.
Persecuzione per vie legali
Da sociologa, ha condotto un importante lavoro sulle minoranze etniche perseguitate in Turchia, raccontando la storia della comunità armena e di quella curda per cercare di capire le cause profonde di una frattura sociale iniziata con la nascita della Repubblica e che caratterizza tuttora la storia della Turchia.
Secondo Selek, solo riconoscendo gli errori – e quindi gli orrori – del passato, il paese può davvero aspirare a un futuro migliore, in cui nazionalismo, militarismo e sessismo lascino finalmente il posto a valori positivi, come la convivenza, il rispetto reciproco e l’attenzione all’ambiente.
Durante la sua carriera di sociologa e militante, Selek ha anche portato avanti dei progetti con bambini di strada e senzatetto ed è stata la co-fondatrice dell’Atelier degli artisti di strada, un luogo di incontro, integrazione e creazione artistica per minori, zingari, trans, prostitute e in generale per tutti coloro costretti a vivere ai margini della società.
La sua attenzione però si è diretta anche verso le donne, fino ad arrivare alla creazione dell’associazione femminista Amargi contro la violenza di genere, e verso la questione ecologista.
Un impegno quest’ultimo concretizzatosi non solo nello studio e nella realizzazione di lavori accademici, ma anche nella creazione della cooperativa ecologica Dut Agaci, grazie alla quale sindacalisti, donne curde, rappresentanti della comunità Lgbtq e semplici cittadini impegnati contro la gentrificazione di Istanbul hanno potuto lavorare insieme e portare avanti la battaglia ecologica e sociale in una città fortemente modificata dagli interessi economici di Erdogan e della sua cerchia.
Ad aver attirato l’attenzione delle autorità, però, è stata principalmente il lavoro sociologico condotto da Selek negli anni Novanta sui curdi e in particolare sulle ragioni che spingevano una parte della comunità ad aderire alla resistenza armata del Pkk.
Nel 1998, a causa di queste interviste, Selek fu arrestata con l’accusa di terrorismo e torturata affinché rivelasse i nomi dei combattenti curdi che aveva incontrato. Non riuscendo ad ottenere dalla sociologa alcuna informazione, le autorità accusarono Selek di essere l’autrice dell’“attentato” in un bazar di Istanbul avvenuto qualche giorno prima del suo arresto e costato la vita a sette persone.
La polizia dichiarò di aver trovato nel suo atelier lo stesso esplosivo usato nel mercato, ma da indagini successive venne fuori che il materiale era stato portato lì dalle stesse forze dell’ordine 22 ore prima del presunto ritrovamento.
Dopo ulteriori approfondimenti si scoprì anche che l’esplosione era stata causata in realtà da una bombola del gas difettosa e che l’uomo che aveva accusato Selek era stato costretto a fare il suo nome sotto tortura.
La ricercatrice fu rilasciata su cauzione nel 2000 e assolta dall’accusa di terrorismo ben quattro volta nel 2006, 2008, 2011 e 2014.
Venticinque anni però dopo il suo caso è stato ancora una volta riaperto tra false accuse, testimonianze inesistenti, prove costruite a tavolino e ribaltamenti delle sentenze che hanno fatto continuamente rimbalzare il suo fascicolo tra i Tribunali penali e la Cassazione.
I giudici supremi si sono espressi nuovamente a gennaio annullando l’ultima assoluzione ed emanando un mandato di arresto internazionale contro di lei, in attesa della sentenza del 31 marzo. Intanto sulla ricercatrice, che vive dal 2009 in Francia, aleggia l’ombra di un mandato di estradizione internazionale.
Il futuro della Turchia
La storia di Selek è la rappresentazione perfetta dei problemi della giustizia in Turchia, ma anche delle storture di un sistema politico che interferisce con la vita dei suoi cittadini e con quella divisione dei poteri tipica di un paese democratico che hanno iniziato a manifestarsi ben prima dell’arrivo al potere di Recep Tayyip Erdogan.
Come spiega bene la stessa Selek. «Il mio caso è il simbolo di un male che affligge la Turchia da molti anni, è il prodotto di un regime autoritario che si perpetua nel tempo. Questa stessa sentenza è solo l’ennesimo esempio di una politica repressiva portata avanti anche in vista delle prossime elezioni».
L’accusa di terrorismo usata contro Selek è quella a cui si fa maggiormente ricorso in Turchia per mettere a tacere le voci d’opposizione, che si tratti di giornalisti, militanti curdi, donne, avvocati, studenti universitari o semplici cittadini che osano scendere in strada per manifestare contro le condizioni di vita e il crescente autoritarismo. «Il governo guidato da Erdogan ha messo ben presto da parte le riforme democratiche dei primi anni Duemila, alleandosi con i Lupi grigi e facendo entrare il paese in un periodo particolare della sua storia, caratterizzato da deregolamentazione economica, giudiziaria e sociale».
Il futuro che attende il paese, secondo la scrittrice, è tutt’altro che roseo, soprattutto per i curdi. A fine dicembre, poco prima dell’attacco contro il Centro democratico curdo di Parigi in furono uccisi tre attivisti, Selek aveva previsto in un articolo per Mediapart nuovi attentati di questo tipo e anticipato il ricorso da parte del governo a una strategia del terrore utile al mantenimento dello status quo.
La strada intrapresa dalla Turchia dunque è ben lontana da quella che avrebbe dovuto portarla verso l’adesione all’Unione europea, obiettivo perseguito da Erdogan nei suoi primi anni al potere. A Bruxelles però la questione del rispetto delle libertà e dei diritti nel paese sembra non interessare più da quando Ankara ha assunto una posizione di mediatore nella guerra russo-ucraina. Tuttavia fino a quando i governi occidentali non prenderanno una posizione decisa contro le politiche repressive messe in campo in Turchia, afferma la scrittrice, il paese proseguirà nella sua deriva autoritaria e finirà con il contagiare anche il resto d’Europa.
A pagarne le conseguenze sono prima di tutto quelle persone che come Selek si sono opposte e si oppongono al sistema di potere vigente nel paese, costrette a fuggire all’estero o private per via giudiziaria delle loro libertà.
Non sorprende quindi che Selek abbia ben poca fiducia nei giudici turchi che si esprimeranno presto sul suo caso. «Non so cosa decideranno. Non essendo uno Stato di diritto, può succedere qualsiasi cosa. Al momento preferisco non pensarci e concentrarmi invece sulla mia lotta per la giustizia». Una lotta che passa anche per la scrittura, strumento che consente di dare voce a chi non ne ha, ma anche di immaginare un mondo diverso, al di là di quel linguaggio del potere che permea la quotidianità e che regola le nostre relazioni. La scrittura, conclude Selek i cui libri sono tradotti in Italia da Fandango, non può cambiare tutto, ma consente di mantenere viva la forza creativa e di continuare a resistere.
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