- Il Brasile è un caso unico nello scenario della guerra alle droghe. E' allo stesso tempo un paese grande consumatore e esportatore. L’asse principale è l’alleanza tra il cartello di San Paolo e la ‘ndrangheta.
- Con il pretesto di combattere i narcos, la polizia ha da sempre mano libera nelle favelas, provocando un vero e proprio genocidio nella popolazione nera e più povera. E i boss dirigono dalle carceri.
- Tutti i tentativi di cambiare le leggi e ridurre la violenza della repressione sono caduti nel vuoto. La polizia si alimenta con la corruzione e ha generato le milizie paramilitari che a loro volta controllano territori.
Tra le prime 50 città al mondo per numero di omicidi in rapporto agli abitanti, ben 44 si trovano in America Latina, secondo i dati elaborati dal sito Statista. La lista cambia poco nel corso degli anni e i paesi più rappresentati sono sempre gli stessi: Messico, Venezuela, Brasile. Ma un’altra è la costante che dovrebbe far riflettere governanti e istituzioni internazionali: guerre a parte, quasi tutta la grande violenza nel mondo è riconducibile a un solo tema: la droga. Sono gli effetti del proibizionismo e di un pensiero unico portato avanti da decenni con esiti risibili e effetti collaterali enormi. La più fallita e dimenticata di tutte le guerre trova il suo principale scenario nelle Americhe: a nord gli Stati Uniti, che da Richard Nixon in poi la orchestrano, nel centro e nel sud del continente i paesi dove si combatte e si muore.
Rio de Janeiro, Brasile. Il nostro viaggio nella guerra perduta contro i narcos parte da una città che, per vari motivi, non fa più parte della lista nera, ma dove la tragedia si esprime alla massima potenza. Basta cominciare dall’ultimo fatto di cronaca. Il 6 maggio scorso la polizia carioca invade con tecniche militari la favela Jacarezinho e compie la peggior strage di sempre: 27 morti. Sostiene di aver reagito al fuoco, mentre era a caccia di trafficanti che reclutano bambini. La spiegazione ufficiale fa acqua in poche ore. Tra le vittime solo cinque avevano precedenti penali e la scena della strage mostrava segni evidenti di esecuzioni sommarie. La violenza della polizia a Rio è storicamente nota, ma qui c’è altro, qualcosa di programmato, con altre motivazioni. Ne parleremo più avanti.
Il Brasile è un caso unico nello scenario della guerra alle droghe. È allo stesso tempo un forte paese consumatore e grande esportatore di cocaina. Negli anni Novanta si diceva che solo a New York girasse più polvere bianca che a Rio, con la differenza che sotto le braccia del Cristo Redentor la coca costava (e ancora costa) un quarto. I banditi delle favelas hanno il monopolio della vendita locale al dettaglio, mentre sono le grandi mafie dirette dalle carceri a fare il lavoro più redditizio. Comprano dai produttori del continente (Bolivia, Perù e Colombia) e gestiscono le spedizioni, soprattutto verso l’Europa. L’asse principale è l’alleanza tra il Pcc di San Paolo (Primeiro Comando da Capital), la più grande organizzazione criminale del Brasile, e la nostra ’ndrangheta, la quale a giudizio degli investigatori offre anche il suo conosciuto know-how per il riciclaggio ai “colleghi” brasiliani.
Il fallimento della repressione
«Credo che nessun paese al mondo gestisca peggio e con tanto spargimento di sangue la questione droga – dice Ilona Szabó, sociologa alla guida dell’istituto Igarapé e principale esperta del tema – Abbiamo allo stesso tempo la legislazione più fragile, la polizia più violenta, una corruzione sistematica e i diritti umani posti ogni volta in gioco, soprattutto con i massacri ai danni della popolazione nera e povera. La repressione non serve a nulla, e manca qualsiasi politica seria di prevenzione». Da anni Szabó lavora a ipotesi di depenalizzazione delle droghe, che in passato hanno visto schierarsi a favore nomi forti della politica latinoamericana come gli ex presidenti Cardoso (Brasile), Gaviria (Colombia) e Zedillo (Messico). Tutti convinti che le politiche repressive siano fallite e abbiamo soltanto fatto aumentare l’offerta. «Naturalmente con il governo Bolsonaro il clima è molto peggiorato, oggi di fatto è una agenda impossibile. Ma sono convinta che prima o poi gli esempi positivi che arrivano da fuori, compreso dal vicino Uruguay, avranno il loro effetto».
Oggi purtroppo sappiamo che i like sui social del governatore di Rio, Claudio Castro, sono aumentati dopo la strage del Jacarezinho e che Bolsonaro ha liquidato la questione con un «ottimo, erano tutti banditi!». Contro qualsiasi evidenza, la destra non vede alternative all’uso della forza e liquida con accuse di filo-banditismo qualsiasi altro ragionamento. «Eppure i fatti sono evidenti – dice Szabó – Le carceri esplodono perché abbiamo una legge antidroga (2006, governo Lula) molto confusa e discrezionale, è il poliziotto a decidere al momento se si trova davanti a un consumatore o un trafficante e, guarda caso, se il ragazzo è nero e abitante di una favela, e soprattutto non ha i soldi affinché possa risolvere la “pratica”, finisce dentro. La media dei sequestri di marijuana a Rio de Janeiro è 10 grammi, si sfiora il ridicolo. Il 30 per cento degli uomini nelle prigioni e ben il 70 delle donne sono dentro per traffico di droga. E le carceri e le loro condizioni disumane alimentano le organizzazioni criminali in Brasile. Il cerchio si chiude».
Violenza genera violenza
È il peggior modo di gestire la questione, con una violenza che si autoriproduce. In Brasile muoiono ammazzate circa 50mila persone all’anno. Un calcolo esatto è impossibile, ma la fetta imputabile alla guerra alla droga e alle sue ricadute è certamente grossa.
Luiz Eduardo Soares, antropologo ed esperto di temi della sicurezza, con un breve passaggio al governo con Lula, spiega che la strage di Rio viene da lontano. «In Brasile la polizia risponde solo a sé stessa, vive in una bolla istituzionale, una enclave che da decenni perpetua la cultura del genocidio – dice Soares – Deriva dal passaggio tra dittatura e democrazia negli anni Ottanta, quando i militari esercitarono il loro potere di veto al fine di mantenere un sistema repressivo, la concezione del poliziotto combattente contro il male in nome della gente perbene. E senza limiti. Ora che questa cultura è arrivata al vertice del potere con Bolsonaro è davvero a rischio la nostra democrazia».
La strage del Jacarezinho, secondo Soares e altri osservatori, è la risposta a un recente stop della Corte suprema alle azioni militari nelle favelas a causa della pandemia. «Per la prima volta il potere giudiziario ha tentato di rompere la bolla di autonomia delle forze dell’ordine, e questa è stata la risposta. Alla vigilia dell’attacco c’era stato a Rio un faccia a faccia tra il governatore e Bolsonaro, non è un caso». Da giugno a ottobre di quest’anno, con il divieto rispettato, si è avuta la più grande diminuzione di morti a Rio di sempre. «Dicevano che la criminalità sarebbe esplosa con i poliziotti chiusi in caserma, che i banditi avrebbero approfittato della pandemia. Non era vero nulla».
Dal 2003 al 2020 in Brasile sono morte 118mila persone per mano della polizia, e i casi indagati sono stati soltanto l’1,5 per cento. Impunità totale. Ci sono, è vero, ondate di indignazione popolare in casi specifici, soprattutto quando le pallottole vaganti colpiscono bambini, o in caso di evidente violenza razzista alla George Floyd. «Ma in pratica non succede mai nulla, non si va alla radice del problema, non si cambiano le leggi. Toccherebbe i privilegi e gli interessi di troppa gente», dice Soares. Una polizia libera di far quel che vuole, di dare la caccia al ragazzino per due spinelli e sbatterlo in galera, o peggio sparargli alla testa, ha grandi chance di mantenere in piedi un sistema permeato dalla corruzione. Non a caso dalla polizia carioca sono nate le milicias, i gruppi paramilitari che hanno espulso i narcos da metà delle favelas di Rio e hanno preso il loro posto praticando estorsioni e offrendo servizi illegali.
«Chissà come mai contro le milizie non c’è stata mai nessuna azione repressiva o di polizia – si chiede il giornalista e scrittore Bruno Paes Manso, autore di un saggio recente sul fenomeno a Rio – I cattivi stanno sempre da una parte sola, evidentemente».
Peggio ancora, i miliziani carioca sono esaltati da Jair Bolsonaro e dai suoi figli come giustizieri del bene e sono noti i rapporti di alcuni di loro con la famiglia presidenziale. È una storia ancora tutta da scrivere, qualche magistrato sta cercando di squarciare il velo. Ma è anche un percorso già visto. In Colombia, per esempio. Partendo dalla repressione alla guerriglia si giustificarono le ronde di autodifesa, le quali divennero milizie paramilitari, spargendo ancora più sangue di coloro contro i quali erano state chiamate a intervenire. Come si finanziano entrambi i fronti? Con il narcotraffico, naturalmente. Il quale produce tanto denaro da permeare la politica. È sempre la stessa storia, che si ripete in varie versioni. Denominatore comune: lo scarso interesse di tanti a stroncare il fenomeno con la soluzione più ovvia, tagliare le fonti di reddito derivate dal proibizionismo.
© Riproduzione riservata