L’Ethiopian Human Rights Commission ha accusato le forze etiopi di avere ucciso 75 persone nel corso delle proteste divampate dopo la morte del cantante Hachalu Hundessa. SI tratta di un nuovo grattacapo per il premier, Abiy Ahmed, passato in un anno da premio Nobel per la pace a promotore di una guerra civile
- Un report dell’Ethiopian Human Rights Commission ha accusato le forze etiopi di avere ucciso 75 persone nel corso delle proteste divampate a luglio dopo la morte del cantante e attivista Hachalu Hundessa.
- Le accuse dell’Onu sono solo l’ultima prova delle difficoltà del premier, Abiy Ahmed, nel gestire i complessi equilibri che regolano rapporti tra le 80 etnie che compongono il paese.
- Il premier non è riuscito a gestire le reazioni delle vecchie élite dominanti del paese che hanno contrastato il suo processo di accentramento dei poteri fino ad arrivare allo scoppio della guerra civile nella regione del Tigray.
Un report dell’Ethiopian Human Rights Commission ha accusato le forze etiopi di avere ucciso 75 persone nel corso delle proteste divampate a luglio dopo la morte del cantante e attivista Hachalu Hundessa, ucciso mentre guidava la sua macchina nella capitale Addis Abeba. Secondo il rapporto, le proteste avrebbero causato un totale di 123 vittime e di oltre 500 feriti. Le accuse dell’Onu sono solo l’ultima prova delle difficoltà del premier, Abiy Ahmed, nel gestire i complessi equilibri che regolano i rapporti tra le 80 etnie che compongono il paese.
Hundessa era stato proprio uno dei simboli delle difficoltà incontrate da alcuni gruppi etnici nel far valere i propri diritti. Nato nel 1986, grazie alle sue canzoni e al suo attivismo il cantante aveva messo al centro dell’agenda politica le difficili condizioni in cui versava l’etnia degli Oromo che, pur rappresentando il 32 per cento della popolazione etiope, è stata per anni ai margini della vita politica del paese. Le proteste guidate da Hundessa avevano fatto da volano alla storica vittoria elettorale del premier Ahmed, anche lui di etnia Oromo, salito al potere nel 2018 con la promessa di riequilibrare i poteri detenuti dalle diverse etnie. Le promesse di Ahmed si sono però scontrate con la ritrosia dei diversi gruppi etnici che avevano governato fino a quel momento e in particolare con i leader del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). L’azione politica di Ahmed, volta a centralizzare sempre di più i poteri, è stata infatti contrastata dal partito tigrino, che si è rifiutato di confluire in un nuovo partito nazionale istituito dal premier per porre un freno ai poteri dei vari partiti regionalisti del paese. Inoltre, nel settembre scorso, il Tplf ha disobbedito al governo federale organizzando le elezioni regionali, nonostante fossero state vietate a causa della pandemia in corso.
Dal Nobel alla guerra
La tensione tra il governo centrale e le forze del Tigray è esplosa il 4 novembre quando le forze federali hanno iniziato un’offensiva militare nella regione, accusando il Tplf di avere attaccato una base militare nazionale. L’inizio del conflitto è stato un momento di svolta inaspettato per la reputazione internazionale del premier Ahmed, che nel 2019 aveva vinto il premio Nobel per la pace per avere posto fine al conflitto decennale con l’Eritrea. Le Nazioni unite hanno denunciato fin da subito la pericolosità della guerra in atto nel Tigray a causa delle violenze commesse sui civili e delle oltre 50mila persone che hanno abbandonato la regione per rifugiarsi nel Sudan. Nonostante la conquista della capitale tigrina Macallè da parte dell’esercito federale, il conflitto nella regione prosegue da quasi due mesi e ha causato anche la morte di quattro operatori internazionali. La guerra ha anche visto il coinvolgimento dell’Eritrea. I ribelli del Tplf hanno lanciato più volte nel corso dei mesi razzi contro la capitale del paese, Asmara, accusando gli eritrei di avere aiutato il governo centrale.
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