- Di giorno, girando per Leopoli, non sembra che a pochi chilometri due eserciti si stiano combattendo massacrando come in ogni guerra i civili nel mezzo. I negozi sono aperti, i caffè sono pieni.
- Ogni mattina c’è un grande ricambio. Sono ancora molti, soprattutto donne e bambini, a cercare rifugio in questa città fino a ora risparmiata dalla guerra.
- I treni riversano in stazione centinaia di persone, ma altrettante prendono quegli stessi treni per tornare verso casa.
A Przemyśl, uno dei paesi al confine tra Polonia e Ucraina nel quale si riversavano i profughi nelle prime settimane di guerra, ora sono più i volontari che arrivano da tutto il mondo di chi scappa dalla guerra.
Nella tendopoli si continua a cucinare, a preparare tè e caffè caldi nonostante siano pochi i profughi rimasti. A fianco alle tende, montagne di vestiti sono a terra, a prendere pioggia e fango. Alla frontiera sono quasi più gli ucraini che rientrano di quelli che escono da un paese ancora in guerra.
La strada che porta a Leopoli, grande città patrimonio dell’Unesco per le sue meraviglie stile Liberty, è costellata di check-point sui quali svetta la bandiera gialla e blu, quasi sempre affiancata da quella rossa e nera del movimento nazionalista ucraino discendente diretto di quell’Esercito insurrezionale ucraino fondato da Stephan Bandera che durante la Seconda guerra mondiale ha sterminato oltre centomila polacchi, più di centomila sovietici e ha collaborato all’Olocausto di più di un milione di ebrei.
L’ansia del conflitto
Le traverse della strada principale che portano ai villaggi intorno a Leopoli sono tutte controllate da piccoli posti di blocco fatti di sacchi di sabbia custoditi da militari giovanissimi o molto anziani. Gli uomini più adatti a fare la guerra sono tutti al fronte. Nessuno può evitare l’arruolamento, l’uscita dal paese è vietata per tutti i maschi che hanno tra i 16 e i 60 anni. Quelli che non vogliono abbracciare un kalashnikov o che sono maschi solo sul documento di identità sono costretti a vivere nascosti per evitare la legge marziale.
La stazione di Leopoli è ancora piena di persone pronte a prendere un treno per andarsene, ma non tutti vogliono scappare. Sono molti quelli che aspettano un treno che li riporti nella loro regione, nella loro città di provenienza.
Oltre agli sfollati, gli unici segni della guerra qui sono gli allarmi antiaerei che suonano più volte durante il giorno e la notte, il coprifuoco alle dieci di sera e il divieto di bere alcolici. Una saggia decisione di Andrij Sedovyl, sindaco di una città dove quasi tutti gli uomini girano armati ed è bene rimanere sobri.
Di giorno, girando per la città, non sembra che a pochi chilometri due eserciti si stiano combattendo massacrando come in ogni guerra i civili nel mezzo. I negozi sono aperti, i caffè sono pieni.
Non c’è pericolo, se non si incappa nelle ronde di poliziotti o di civili armati che controllano i cellulari per vedere se sono state fatte foto a obiettivi sensibili come le antenne delle telecomunicazioni, la stazione dei treni o mezzi militari. Si rischiano 12 anni di carcere, perché la caccia alla spia russa è capillare e spietata.
Al calar del sole, ben prima del coprifuoco, la città si svuota e i tram – guidati quasi solo da donne – portano a casa gli abitanti di questa città che vive nell’ansia di essere travolta dal conflitto.
Ritorno a casa
Gli sfollati della stazione dormono nelle sale d’aspetto e nei sottopassaggi. Il sonno interrotto dagli allarmi antiaerei che a Leopoli risuonano nelle strade e nei cellulari grazie a una applicazione. Per le donne e i bambini sono state riservate delle sale più tranquille e riparate ai piani superiori. Decine e decine di materassi buttati a terra sono l’unica comodità per chi viene da Mariupol, dalla regione di Chernihiv o dalle altre zone dove i russi bombardano e dove si combatte con ferocia.
Ogni mattina c’è un grande ricambio. Sono ancora molti, soprattutto donne e bambini, a cercare rifugio in questa città fino a ora risparmiata dalla guerra. I treni riversano in stazione centinaia di persone, ma altrettante prendono quegli stessi treni per tornare verso casa.
La stazione è costellata di gilet gialli o arancioni dei volontari – giovanissimi e in gran parte donne – che prestano instancabilmente assistenza agli sfollati. Chiediamo a Ylenia, una ex-pilota dell’aviazione militare ucraina oggi in pensione, come mai così tante persone tornano verso le loro zone di provenienza.
«Molti sperano che la guerra stia finendo, e in effetti in molte parti del paese il conflitto è diminuito. Molti non ne possono più di stare al freddo della stazione. Molti rientrano nel paese perché nei centri di accoglienza europei si sono trovati in mezzo a gente di altri colori della pelle».
Il razzismo è molto diffuso a Leopoli. I rom soprattutto, ma in generale chi non ha la pelle bianca viene trattato con disprezzo. E alla stazione viene sbattuto giù dai treni per riservare il posto agli ucraini doc.
«Questo è il mio paese»
Qui incontriamo Yura. Ha accompagnato da Kiev la sua fidanzata Katia a prendere il treno che la porterà fuori dall’Ucraina, lontana dalle bombe russe, al sicuro dalla guerra.
Va in Francia a raggiungere la sorella, e potrà ricominciare a danzare e a studiare in una accademia non distrutta dalle incursioni dei soldati di Putin. Yura e Katia si guardano, si toccano, si parlano e si baciano come se non ci fosse un domani di fronte al lunghissimo treno blu, una trentina i vagoni, spinto ancora da motori a carbone. Quando Katia sale sul treno, Yura la guarda dal finestrino. Continuano a parlare da un cellulare all’altro, le mani appoggiate al finestrino, gli sguardi velati dalle lacrime.
«È una follia – ci dice poi Yura – che nel 2022 ci sia ancora qualcuno che pensa di risolvere questioni facendo la guerra». Porta un tutore al ginocchio destro: è libero di andare in giro perché si è rotto menisco e legamenti crociati. Gli ospedali dove doveva operarsi oggi hanno altro a cui pensare che non siano le ginocchia di un giocatore di pallone. Ma non lascia il paese, non accompagna Katia in Francia.
«Non potrei lasciare l’Ucraina. Mi vergognerei a lasciare i miei amici che sono qui a combattere. E se mi chiamassero andrei con loro. La guerra è una assurdità, ma questo è il mio paese e non me la sento di lasciarlo». Yura è un informatico. «E questa è una fortuna, perché posso continuare a lavorare con il mio team anche da qui. Ma appena posso torno a Kiev, dai miei amici, dalla mia gente».
Gli aiuti
Ci spostiamo in periferia, dove lo stile Liberty dei palazzi viene soppiantato dal meno romantico realismo socialista: enormi casermoni grigi. I più vecchi sono squadrati con centinaia di finestre e antenne paraboliche sulle facciate, i più recenti con qualche tentativo di creatività architettonica, tutti scrostati e fatiscenti.
In un enorme centro culturale i volontari e le volontarie ucraini catalogano, ordinano e smistano in direzione delle aree più colpite del paese gli aiuti arrivati da tutto il mondo. Vestiti, cibo e medicinali andranno nelle zone ancora sotto le bombe e nelle città assediate. Al primo piano sono ospitate una quarantina di donne con i loro figli.
Cristina è arrivata qui da Nizhyn, nella regione di Chernihiv ancora sotto le bombe russe. «Abbiamo aspettato fino all’ultimo prima di lasciare il nostro paese. Ma ieri una bomba è esplosa vicinissimo a casa nostra, sfondandoci vetri e porte. Mentre a Istanbul i russi trattavano e promettevano passi verso la pace, qui continuavano a sganciare bombe e a tirare razzi contro le nostre città. È inutile trattare con quelli, dicono solo bugie».
Le poltrone della sala concerti del centro culturale, duemila posti, e quelle del cinema, più di duecento, sono tutte occupate da scatoloni, vestiti e cibo suddivisi per tipo, taglia, destinazione. I volontari del quartiere lavorano senza sosta per mettere in ordine gli aiuti umanitari insieme alle ospiti del centro sfollate dalle loro case.
La carovana della pace
Andiamo ad aspettare la carovana della pace in uno dei più celebri locali di Leopoli. Per entrare si bussa a una porta di legno, che viene aperta da un signore con il kalashnikov in spalla. Fa da filtro, e per entrare si deve declamare la propria appartenenza citando lo slogan «russian warship idi nahui» – le parole comunicate via radio dai 13 soldati a presidio di Snake Island lo scorso febbraio, «nave russa vaffanculo», oppure «Putin Huilo» che si traduce in «Putin testa di cazzo». Il locale è sotterraneo, in quelle che erano le cantine. I muri di mattoni sono coperti di immagini patriottiche, ritratti di Stephan Bandera, stendardi militari. Qui si può anche bere una birra.
La carovana “Stop War Now”, circa duecento volontari che sono arrivati a Leopoli con una cinquantina di mezzi carichi di aiuti e che sono ripartiti carichi di duecentocinquanta profughi alla volta dell’Italia, sfila per le strade della città dalla stazione al centro, quattro chilometri, circondata di sguardi quando va bene sospettosi degli abitanti di Leopoli. Per i quali la pace può e deve attendere una sola cosa: la sconfitta dei russi.
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