L’accordo che la compagnia siderurgica ha siglato con la Nippon Steel, dopo aver fatto preoccupare senatori trumpiani e progressisti, ha attirato l’attenzione della Casa Bianca che ha annunciato di voler porre «sotto attento scrutinio» l’accordo. Non solo per ragioni di sicurezza nazionale, ma perché l’azienda ha rappresentato per anni la potenza americana nel mondo.
C’è stato un tempo in cui la U.S. Steel, azienda nata nel 1901 dalla fusione di tre conglomerati siderurgici grazie al finanziamento e ai buoni uffici del banchiere J.P. Morgan, rappresentava la potenza economica degli Stati Uniti nel mondo.
Tramite l’acciaio gli Stati Uniti costruivano la loro potenza pronta a prendersi la scena globale. Oggi il gruppo dell’acciaio è l’ombra dei tempi che furono, tant’è vero che la notizia del suo acquisto per 14 miliardi e 900 milioni di dollari da parte della Nippon Steel, inizialmente non ha fatto molto rumore, finendo nelle pagine economiche.
Anche se la compagnia ormai è soltanto ventisettesima a livello mondiale, il mood non è lo stesso di poco meno di dieci anni fa, quando il gruppo Chrysler è diventato parte integrante di Fca e a protestare c’era soltanto qualche figura marginale della politica, come l’ex speaker repubblicano della Camera Newt Gingrich.
Adesso, invece, siamo nell’epoca della globalizzazione frammentata e un passaggio di mano di una simile compagnia non può non fare alzare qualche sopracciglio. A cominciare dalla stessa Casa Bianca che ha dichiarato il 19 dicembre che un simile accordo merita di essere passato «sotto un attento scrutinio».
I timori della Casa Bianca
Il motivo è che in un momento storico di reshoring, ovvero di rimpatrio della produzione manifatturiera e tecnologica, un accordo del genere appare antistorico, anche perché, come ha dichiarato Lael Brainard, presidente del National Economic Council, l’organismo consultivo che aiuta il presidente Biden nelle questioni economiche, «è in gioco la sicurezza nazionale».
Se da parte giapponese queste preoccupazioni vengono accolte con una scrollata di spalle (un’editoriale del Japan Times ha definito questi rilievi «ridicoli» data la stretta alleanza politica tra Tokyo e Washington, che spesso si riverbera anche nel tentativo di costruire uno spazio economico di libero scambio dove le produzioni intermedie vengono sottratte a paesi ritenuti ostili e concorrenti).
Tutto ciò non basta ovviamente a calmare le furie non solo dei trumpiani estremisti, ma anche della sinistra dei dem che in questo caso si trovano sullo stesso lato della barricata in una sorta di alleanza informale “laburista”.
I diritti dei lavoratori
Se il senatore dell’Ohio J.D. Vance, accompagnato dal collega del Missouri Josh Hawley e dall’omologo della Florida Marco Rubio hanno invitato la segretaria al Tesoro Janet Yellen a fare luce su ogni aspetto dell’accordo e a bloccarlo temporaneamente, altri quattro dem hanno espresso la loro opposizione totale a un patto «fatto a porte chiuse» su cui non ci sono garanzie «per i diritti dei lavoratori».
La U.S. Steel è stata da sempre un’azienda sindacalizzata e, per quanto verbalmente la nuova proprietà giapponese abbia dichiarato che non intenda toccare lo status quo, la preoccupazione rimane. Anche perché in questi anni uno dei pilastri della strategia bideniana di recupero della classe operaia passava per la difesa «di buoni posti di lavoro operai pagati bene e sindacalizzati».
Qualora la nuova azienda nippo-americana, che diventerebbe il quarto produttore di acciaio su scala globale, disattendesse le promesse, sarebbe una vera bomba sociale proprio in quella Rust Belt decisiva per le elezioni presidenziali del 2024.
Come notato da Jay Nordlinger sul magazine conservatore National Review, un tempo la U.S. Steel simboleggiava il potere assoluto delle corporation, impossibile da scalfire, e la sua decadenza, che negli ultimi anni è proceduta inarrestabile, ha rappresentato il declino della potenza industriale americana in modo particolarmente visibile.
Infine la U.S. Steelworker, il principale sindacato dei lavoratori siderurgici, si oppone strenuamente a questo passaggio di proprietà, anche perché sono state respinte altre offerte americane da parte di Cleveland Cliffs e Esmark.
Già in passato un annunciato sciopero sindacale aveva posto un presidente dem in una scomoda posizione: nel 1952 uno sciopero annunciato fece prendere a Harry Truman la decisione di nazionalizzare la produzione d’acciaio proprio per ragioni di sicurezza nazionale.
Le compagnie coinvolte fecero ricorso alla Corte suprema, che diede loro ragione nella sentenza Youngstown Sheet Tube & Co. v. Sawyer: la Casa Bianca non aveva diritto di prendere il controllo di una proprietà privata in questo modo proditorio.
D’altro canto, nelle prossime settimane Biden verrà sicuramente tirato per la giacchetta per dire la sua ed evitare di perdere ancora consenso in patria, senza però far arrabbiare un alleato chiave come il Giappone. Una posizione dove il rischio di perdere ancora popolarità è altissimo.
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