La visitadel segretario di Stato degli Stati Uniti riaccende le polemiche attorno alla questione dei territori occupati
La visita del segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ad alcuni insediamenti dei coloni israeliani sia in Cisgiordania che nel Golan riaccende una volta di più le polemiche da parte palestinese attorno alla questione dei territori occupati. Gli europei guardano alla missione americana come a una ulteriore legittimazione che l’amministrazione Trump offre alla politica del fatto compiuto portata avanti dalla destra israeliana, guidata dal premier, Benjamin Netanyahu. In verità nessuno sa come reagire: dall’arresto dei negoziati avvenuto anni fa, nessuna nuova idea concreta è stata presentata, salvo ripetere il mantra “due popoli, due stati” senza indicarne la fattibilità. L’unica opzione che rimane è quella propugnata dal primo ministro israeliano, completamente contrario alla tesi dei due stati. Il suo sostegno a nuovi insediamenti mira a rendere la soluzione dei due stati oggettivamente impossibile.
Secondo la posizione di Netanyahu, la sovranità palestinese deve rimanere limitata e sotto controllo per molto tempo ancora, se non per sempre. D’altra parte, gli accordi di Abramo negoziati dagli Usa e stretti con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, la normalizzazione con il Sudan, i colloqui in corso con altri paesi arabi: tutto lascia pensare che gli stati arabi non siano più interessati ad intestarsi la lotta dei palestinesi in funzione anti-israeliana. Il fronte del rifiuto non esiste più: la Siria è devastata e gli americani hanno riconosciuto di fatto la sovranità israeliana sulle alture del Golan; l’Iraq è occupato dalle sue crisi interne; l’Algeria si agita tra disagio sociale e delegittimazione della classe dirigente. Contemporaneamente l’Egitto è alla prese con Ankara e sostiene Riad nella lotta per la supremazia nel mondo sunnita.
Pompeo compie la sua visita anche per un’altra ragione: deve spiegare ai coloni il perché del blocco della strategia dell’annessione che stava per essere messa in atto prima degli Accordi di Abramo. Una delle condizioni che gli arabi del Golfo hanno ottenuto è stata la sospensione sine die delle annessioni già annunciate. Il che non ha fatto piacere ai settlers che vorrebbero smetterla di combattere contro l’endemico congelamento degli insediamenti che di tanto in tanto viene dichiarato in base al fatto che quelle terre sono contese. Esiste un tema giuridico di fondo che concerne il diritto di proprietà conseguente al riconoscimento della legalità degli insediamenti, che la stessa Corte suprema israeliana si è trovata a dirimere varie volte. L’annessione avrebbe tagliato il nodo gordiano una volta per tutte, almeno dal punto di vista israeliano, portando la politica del fatto compiuto alle sue estreme conseguenze.
La posizione di Biden
Ora Pompeo dovrà giustificare la scelta americana che distingue il Golan dalla Cisgiordania e che non ha lasciato buona impressione tra gli insediamenti e i fra i loro partiti di riferimento. Sul Golan gli Usa difficilmente torneranno indietro anche con la prossima amministrazione di Joe Biden, filo-israeliano anche lui. D’altra parte la Siria di Assad, ridotta ai minimi termini dalla lunghissima guerra che l’ha dilaniata e che non è ancora terminata, non ha la forza né l’interesse di accendere una nuova contesa con Israele. L’unico avversario possibile rimane il presidente turco Erdogan che farà certamente sentire la sua voce e le sue proteste contro la visita di Mike Pompeo, anche nei fori internazionali.
Ma si tratta di posizioni formali: in realtà Ankara è indifferente al destino dei palestinesi. Ciò che le interessa è la disputa sugli idrocarburi nel Mediterraneo orientale, dove si sente esclusa. Ciò che rimane del viaggio del segretario di Stato è l’isolamento palestinese, in particolare quello del leader dell’Autorità nazionale, Abu Mazen. In questo momento il presidente palestinese non ha interlocutori e la sua popolarità è al minimo. Ciò che ormai da anni manca ai palestinesi è uscire dall’ingessamento politico con un’idea nuova di sistemazione che segni una ripresa di iniziativa politica, senza attendere che la soluzione venga da fuori.
Serve una proposta palestinese realistica, moderata e incrementale, che possa ricevere l’endorsement della comunità internazionale e nel contempo includa il riconoscimento definitivo non solo dell’esistenza ma anche delle esigenze di sicurezza dello Stato di Israele. È tempo di eliminare ogni tabù e compiere tale passo, l’unico suscettibile di abbattere il clima di odio e sospetto che da sempre caratterizza le relazioni tra i due popoli.
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