Berlino ha sviluppato un sistema che offre lavoro e integrazione. È costoso, ma viene ripagato dalle tasse che i nuovi arrivati pagano
L’accoglienza che paga è un orizzonte possibile, neanche troppo lontano da noi. A proporre un sistema che sta iniziando a dare i propri frutti è la Germania, in queste ore oggetto degli attacchi più feroci dei leghisti, arrivati a paragonare le invasioni dei nazisti alle ondate di migranti in arrivo sulle coste italiane.
La Germania ha sì smesso di partecipare al meccanismo di ripartizione volontaria dell’Unione europea, e quindi ad accogliere migranti dall’Italia in attesa del momento in cui Roma riprenderà i suoi “dublinanti”, cioè quelle persone che sono state registrate per la prima volta nel nostro paese e quindi andrebbero gestite da Roma. Ma sta comunque gestendo numerosi arrivi.
I dati hanno subito un’impennata dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e oggi siamo già oltre un milione di rifugiati. Una situazione che ricorda il 2015, quando in Germania erano giunti tantissimi siriani in fuga dal conflitto nel loro paese. All’epoca era stata fissata una quota indicativa di migranti da accogliere ogni anno nel paese, che dovevano essere all’incirca 200mila. Quella quota non è più stata superata, se non nel 2022, ma paradossalmente da allora anche i detrattori hanno iniziato a cogliere i vantaggi economici dell’integrazione.
Il valore dei migranti in termini di forza lavoro ha iniziato a essere apprezzato pienamente, e fin dal 2015, quando l’allora governo Merkel aveva investito sei miliardi di euro nella gestione del problema. Gli investimenti sono stati costanti per costruire un sistema che rendesse l’inserimento dei migranti nella società e nel mercato del lavoro sempre più facile.
Il sistema
Oggi chi arriva in Germania viene assegnato, in base a un algoritmo che considera la popolazione locale e il paese d’origine, a un centro di prima accoglienza in uno dei sedici Land. Gli vengono garantiti vitto, alloggio e assistenza sanitaria e la persona può presentare immediatamente domanda d’asilo. L’esame della richiesta si esaurisce in genere in sei-sette mesi: la grande differenza rispetto a quel che succede in Italia è che durante questo periodo i richiedenti asilo possono partecipare ai corsi di lingua e di integrazione organizzati dalle amministrazioni locali e dai centri per l’impiego.
I dettagli di ogni sistema regionale sono determinati dai singoli Land, ma il pensiero alla base è simile: prima il migrante inizia a lavorare, prima inizia a pagare le tasse. Un circolo virtuoso che permette di ripagare gli investimenti esosi che il sistema richiede e in prospettiva garantisce al paese la forza lavoro necessaria che la natalità in declino non può più fornire.
Insomma, una scommessa che dal 2015 a oggi sembra aver pagato: il 54 per cento delle persone che sono arrivate in Germania sei anni fa ha un posto di lavoro, due terzi di queste possiedono un contratto a tempo pieno. Nel primo anno successivo all’arrivo soltanto il sette per cento ha un impiego: la prova evidente di come i corsi di integrazione e lingua (anche di linguaggio di settore) finanziati interamente o almeno in parte dallo stato facciano la differenza.
Certo, bisogna spendere diverse decine di miliardi di euro annui (sono stati 21,6 nel 2021, circa il 4 per cento della spesa pubblica di quell’anno). Il sistema di accoglienza ha fatto il salto di qualità soprattutto nel 2015, quando è stata potenziata la possibilità di assumere i richiedenti asilo e di far svolgere percorsi di formazione professionale a chi non ne possedeva una: un investimento delle aziende sui nuovi arrivati che li ha anche motivati a spendersi poi per la loro permanenza in Germania e in azienda.
L’altra gamba su cui cammina il sistema d’integrazione è un solido meccanismo di welfare che assiste i migranti nella richiesta di sostegno finanziario allo stato, per esempio per quanto riguarda l’affitto o le prestazioni sanitarie. Dopo l’assegnazione nella struttura di prima accoglienza, i migranti vengono infatti ripartiti sul territorio regionale, in base alla popolazione delle singole città e tenendo conto anche della presenza di eventuali comunità di connazionali: a quel punto, le persone vengono seguite dall’amministrazione locale e da società private che lavorano per lo stato e aiutano i migranti nei loro primi mesi in Germania.
Legalità e lavoro
L’obiettivo ultimo del sistema è di tenere i migranti il più possibile fuori dai circuiti paralegali e inserirli nel mercato del lavoro e nel sistema pensionistico. Un principio che vale anche per chi si è visto negare la richiesta d’asilo ma non è stato ancora rimpatriato: anche a questi migranti è concesso lavorare in un regime di tolleranza, una condizione che riguarda circa 240mila persone.
Anzi, il governo “semaforo” (Spd-liberali-Verdi) ha anche implementato una sanatoria che concede il permesso di soggiorno a chi è in questa situazione ma rispetta una serie di condizioni. La maggioranza vorrebbe ulteriormente intervenire sulle norme che regolano permanenza e integrazione e accelerare le procedure di concessione del diritto di asilo.
L’economia poi continua ad aver bisogno di nuova manodopera, motivo per cui il governo sta organizzando una campagna per attrarre nuovi lavoratori con le competenze più necessarie al mercato del lavoro tedesco. Di fronte a un bisogno di almeno 400mila lavoratori migranti ogni anno, attualmente la Germania ne attira ancora troppo pochi: nel 2019 sono stati appena 39mila, nel 2020 29mila. “Make it in Germany”, promette il ministero dell’Economia sul suo sito.
I lavoratori specializzati potranno infatti accedere a una corsia preferenziale organizzata in base a un sistema a punti: il sistema è estremamente vantaggioso, i tempi burocratici sono ristretti e il ricongiungimento familiare è più semplice. La fame di forza lavoro arriva al punto tale da proporre anche programmi ad hoc a lavoratori con formazione non universitaria e studenti universitari. Tutto pur di non rimanere senza le braccia necessarie a tenere in piedi l’economia.
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