Il cancelliere tedesco a Pechino lancia un messaggio a Washington e ai partner di coalizione. Ma non doveva essere finita l’era Merkel?
Olaf Scholz è sbarcato venerdì 4 novembre a Pechino accompagnato dal gotha delle multinazionali tedesche. Il cancelliere si è portato dietro gli amministratori delegati, tra gli altri, di BioNTech (il cui vaccino è stato autorizzato per gli stranieri in Cina) Basf, Siemens, Volkswagen, Bayer, Merck, Deutsche Bank, Bmw. Scholz è il primo leader del G7 e dell’Unione europea a visitare la Cina dallo scoppio della pandemia, eppure la Germania, che nell’Unione europea è il suo partner principale, punta a ridurre la dipendenza dal gigante asiatico. Zeitenwende, ovvero “svolta epocale”: così i tedeschi riassumono la fine dell’era Merkel – 16 anni scanditi da cordiali incontri annuali tra i due governi e da lucrosissimi scambi tra tecnologia e mercati di sbocco per il made in Germany – e l’avvento di un tempo in cui le relazioni con la Cina si stanno sempre più politicizzando.
Autonomia strategica
A tal proposito Xi ha auspicato che Berlino possa aiutare l’Ue a sviluppare una “autonomia strategica” (dagli Stati Uniti). «La Cina insiste che le sue relazioni con l’Europa non devono essere influenzate o controllate da terze parti», ha detto Xi a Scholz.
Il leader socialdemocratico aveva fatto precedere la sua missione da un articolo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. «La Germania non ha alcun interesse a veder emergere nel mondo nuovi blocchi – ha scritto l’ex ministro delle finanze con una lunga esperienza di collaborazione con la Cina alle spalle –. L’ascesa di Pechino non giustifica gli appelli di qualcuno a isolare la Cina». Per Scholz «il decoupling è la risposta sbagliata, dobbiamo continuare a fare affari con la Cina».
Il messaggio è arrivato forte e chiaro, a Washington e a Berlino, dove i partner “anti Cina” di coalizione e gran parte dei media lo hanno messo sulla graticola.
Scholz ha sottolineato di aver «detto al presidente Xi che è importante che la Cina usi la sua influenza sulla Russia. Siamo d’accordo che minacciare attacchi nucleari è irresponsabile e pericoloso».
Xi gli ha risposto che la Cina sostiene la Germania e l’Ue nella promozione di trattative di pace e che la comunità internazionale dovrebbe «invitare tutte le parti interessate a esercitare razionalità e moderazione, condurre contatti diretti il prima possibile». La Cina vorrebbe “continuità e stabilità” nei rapporti con l’Ue, mai così tesi.
E, in attesa di aprire “nuove prospettive di cooperazione” con la Francia (Emmanuel Macron è in lista d’attesa per essere ricevuto da Xi), Pechino prova a preservare la sua relazione speciale con Berlino.
Esecutivo spaccato
Negli ultimi giorni il cancelliere ha dovuto fronteggiare i grünen, titolari degli Esteri e dell’Economia, e i liberali, decisi a bloccare l’ingresso del colosso di stato cinese Cosco nel più grande porto tedesco, quello di Amburgo. Scholz si è trovato contro sei ministri.
Alla fine si è raggiunto un compromesso: la China Ocean Shipping Company si accontenterà del 24,9 per cento del pacchetto azionario anziché del 35 per cento (che le avrebbe attribuito la maggioranza) di “Tollerort”, uno dei tre terminal container della Hamburger Hafen und Logistik.
Ma una nota del capo della diplomazia, Annalena Baerbock (condivisa dai Freien Demokraten), ha rivelato timori e sospetti per le mosse di Pechino: «Quando parti dell’infrastruttura europea dei trasporti sono influenzate o controllate dalla Cina si presentano rischi considerevoli, non solo economici ma soprattutto geopolitici».
Alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina, la Germania dipendeva dalla Russia per il 55 per cento delle sue importazioni di gas. E a Berlino c’è chi teme che si stiano ripetendo gli stessi errori. Gli allarmi su Taiwan si susseguono da mesi e – sostiene Baerbock –, nel caso di un conflitto, Pechino potrebbe strumentalizzare una parte dell’infrastruttura critica della Germania e, dunque, dell’Europa.
Anche per scongiurare questo pericolo i partiti della coalizione “semaforo” stanno elaborando la prima strategia tedesca sulla Cina, attesa nei prossimi mesi, che dovrebbe sancire la nuova linea, meno accomodante, di Berlino nei confronti di Pechino.
In attesa di quel documento, il commercio bilaterale (dal quale in Germania dipendono un milione di posti di lavoro) è più florido che mai, nonostante la pandemia. Con beni scambiati per un valore di 245,4 miliardi di dollari nel 2021 la Cina è si è confermata, per il sesto anno consecutivo, il principale partner della Germania. Nei primi nove mesi di quest’anno, il 39 per cento dell’export Ue in Cina è arrivato dalla Germania.
Porte aperte per la Germania
Dal 2016 invece l’Ue ha iniziato a socchiudere la porta agli investimenti cinesi, che in quell’anno raggiunsero il picco (44 miliardi di dollari) grazie all’acquisizione da parte di Cosco del Porto del Pireo (a titolo di confronto, quelli Usa nel 2020 hanno toccato quota 2.300 miliardi di euro).
Da allora, anche per effetto delle misure protezioniste varate, nell’Ue le acquisizioni cinesi sono diminuite costantemente, con l’eccezione dell’anno scorso, quando però il momentaneo rialzo è stato determinato dall’acquisto di Philips da parte dell’hongkonghese Hillouse Capital.
La Bdi (la Confindustria tedesca) già nel gennaio 2019 aveva avvertito in un policy paper che il modello aperto e liberale del paese è sempre più in concorrenza con le aziende di stato cinesi, dalle quali la Germania dovrebbe difendersi con maggiore forza.
Qualche mese più tardi (il 12 marzo) gli stessi timori apparvero nello “Strategic Outolook” della Commissione Ue guidata dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, che ha definito la Cina, oltre che un partner, «un concorrente economico nella ricerca della leadership tecnologica e un rivale sistemico che promuove modelli alternativi di governance».
Nella primavera 2021 il Comprehensive Agreement on Investment – un accordo negoziato per otto anni che avrebbe facilitato gli investimenti Ue-Cina – è stato congelato dopo che, in risposta alle sanzioni europee del 22 marzo nei confronti di funzionari ed entità cinesi per la violazione dei diritti umani nel Xinjiang, Pechino aveva contro-sanzionato un gruppo di parlamentari e istituzioni dell’Ue.
Nonostante ciò, gli investimenti diretti esteri (Ide) delle compagnie tedesche continuano a crescere: secondo un recente rapporto di Rhodium group, nel 2020 e 2021 sono saliti rispettivamente al 43 e al 46 per cento di quelli complessivi dell’Ue in Cina.
Lo stesso studio evidenzia che a fare la parte del leone è il settore dell’auto, con Volkswagen, Bmw e Daimler che nel periodo 2018-2021 hanno rappresentato il 34 per cento degli Ide europei in Cina.
Al Consiglio del 20-21 ottobre scorso gli altri leader dell’Ue hanno ricordato al cancelliere i rischi di un’eccessiva dipendenza dalla Cina, che per la Germania è particolarmente critica per quanto riguarda i microchip, le terre rare e i pannelli solari. Ieri Scholz ha chiesto a Xi reciprocità d’accesso, più spazio per le aziende tedesche nel mercato cinese.
Volkswagen e Xinjiang
Il Global Times nei giorni scorsi ha lodato Oliver Blume (nella delegazione al seguito di Scholz) dopo che il nuovo amministratore delegato aveva assicurato che Volkswagen – che vende in Cina il 40 per cento delle sue auto – manterrà la produzione nel Xinjiang, nonostante le accuse di contiguità con il sistema di lavoro forzato e rieducazione politica dei musulmani della regione.
Nella primavera scorsa Baerbock aveva auspicato un divieto d’importazione nell’Ue di merci del Xinjiang prodotte con sospetto lavoro forzato, come previsto dallo statunitense “Uyghur Forced Labour Prevention Act”.
Il 21 settembre scorso però il suo compagno di partito, il ministro dell’economia Robert Habeck, ha dovuto ritirare la proposta di sottoporre a scrutinio tutti gli investimenti tedeschi verso la Cina dopo che – secondo la ricostruzione della Reuters – era stato rampognato dai boss di Basf, Deutsche Bank e Siemens.
Il 6 settembre scorso Basf ha inaugurato il suo impianto di Zhanjiang, un investimento da dieci miliardi di dollari nella provincia del Guangdong “indipendente”, senza joint venture con un’azienda cinese.
I giganti tedeschi in Cina danno lavoro a milioni di persone e collaborano con i programmi di Pechino per sviluppare una manifattura avanzata sul modello della Industrie 4.0 tedesca. E Berlino spera di aver protetto le sue big in Cina dalle crescenti tensioni internazionali, avendo messo su sistemi gestionali e catene di approvvigionamento indipendenti dalla Germania, locali per i mercati locali (local to local).
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