Dalle proteste antirazziste americane ai movimenti pro democrazia di Hong Kong, nonostante la pandemia in corso anche quest’anno ha visto l’esplosione di proteste in vari paesi
- Nonostante gli effetti del Covid-19, anche il 2020 ha visto la nascita o il proseguimento di diversi movimenti di protesta.
- Il movimento più importante da un punto di vista numerico e di paesi influenzati è stato sicuramente quello del Black Lives Matter che si è sviluppato dopo l’uccisione dell’afroamericano, George Floyd.
- Importanti forme di proteste si sono sviluppate anche in altri paesi come la Polonia dove le donne hanno cercato di difendere il diritto all’aborto o la Thailandia dove i manifestanti combattono la loro lotta per la democrazia usando anche l’arma dell’ironia.
Nonostante la pandemia in atto, il 2020 è stato un anno di forti proteste in diverse aree del mondo.
Gli Stati Uniti contro il razzismo
Una delle proteste sicuramente più importanti per il numero di paesi coinvolti e per il suo significato culturale è stato il movimento nato negli Stati Uniti sotto il nome di Black lives matter (le vite dei neri contano). Le proteste sono iniziate negli Stati Uniti a fine maggio a seguito della morte dell’afroamericano, George Floyd soffocato sotto il ginocchio di un agente che lo teneva immobilizzato. La protesta si è allargata a diversi altri paesi occidentali con un passato coloniale. Migliaia di manifestanti si sono accaniti contro le statue di personaggi come Winston Churchill e Cristoforo Colombo accusati di avere avuto un ruolo nel passato (?) razzista dei paesi occidentali.
Le proteste sono proseguite nel corso dei mesi in seguito alla diffusione di video che provavano le violenze commesse dalle forze dell’ordine contro gli afroamericani. Il tema è entrato anche nella campagna presidenziale americana con il presidente americano, Donald Trump, che si è schierato contro i manifestanti ed è stato criticato per le sue ambiguità verso le milizie dell’estrema destra.
La Polonia e il diritto all’aborto
Il 22 ottobre la Corte costituzionale polacca, sostenuta dal governo sovranista, ha approvato una sentenza che prevede il divieto di praticare l’aborto anche in caso di gravi malformazioni del feto. Da quel momento in poi decine di migliaia di attivisti hanno iniziato a protestare contro la decisione che rende di fatto l’aborto legale solo in caso di violenza sulla donna o di pericolo per la salute della donna incinta. Le proteste hanno visto scioperi nazionali e sono arrivate anche in parlamento dove l’opposizione al governo conservatore ha esposto cartelli con su scritto «questa è guerra». Anche l’Unione europea è intervenuta nel dibattito: il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui chiede a tutti gli stati di garantire il diritto all’aborto. Ma il governo guidato dal partito di estrema desta, PiS non sembra per ora intenzionato a cedere. Nel frattempo, se la Polonia rischia di perdere il diritto all’aborto, in Argentina la Camera ha approvato una storica legge che legalizza l’aborto entro le prime quattordici settimane di gravidanza.
Sfilate e lacrimogeni: le proteste in Thailandia
Iniziate nel gennaio di quest’anno le proteste pro democrazia in Thailandia sono durate con brevi pause per tutto l’anno. I manifestanti chiedono l’introduzione di riforme democratiche in un paese ancora prigioniero di logiche proprie più di una monarchia assoluta che di una costituzionale. A essere sotto accusa è infatti il potere del sovrano la cui influenza è garantita da una legge di lesa maestà che prevede pene fino a quindici anni di carcere per chiunque osi criticare la casata reale. I manifestanti si sono caretterizzati anche per l’uso di ironia scegliendo come sponsor delle papere di gomma giganti che si sono rivelate molto utili per difendersi dagli idranti usati dalla polizia. Un altro episodio singolare è stata la sfilata improvvisata dagli attivisti per ridicolizzare quella ufficiale organizzata dalla principessa. Le incognite sul successo delle proteste, però ,rimangono come testimoniato dalla decisione del premier di usare ogni «legge in suo possesso» per fermare i manifestanti.
La Bielorussia prova a voltare pagina
Dopo 26 anni di dominio incontrastato il dittatore bielorusso, Aleksandr Lukashenko, ha iniziato a vedere il suo potere scricchiolare. Dalle elezioni del 9 agosto, che hanno visto la riconferma del regime del contestato presidente, si susseguono con cadenza quasi settimanale le proteste per le strade del paese che chiedono a gran voce le dimissioni di Lukashenko e l’inizio di una nuova era democratica. Il regime ha usato il pugno di ferro reprimendo duramente le proteste, ma il governo di Lukashenko appare sempre più isolato a livello internazionale: l’Unione europea non ha riconosciuto la vittoria elettorale del dittatore e ha invece sanzionato diverse figure chiave del suo governo. Anche il Comitato internazionale olimpico è intervenuto escludendo Luksashenko dalla partecipazione alle prossime Olimpiadi perché accusato di avere discriminato gli atleti.
Hong Kong e la lotta con Pechino
Le proteste iniziate a Hong Kong nel luglio del 2019 sono proseguite nel corso di tutto l’anno. Accanto alla determinazione dei manifestanti nel chiedere l’introduzione del suffragio universale si è però manifestata sempre più crescente la repressione delle autorità cinesi che reclamano sempre di più l’influenza sulla regione. Il parlamento cinese ha approvato a luglio la cosiddetta legge sulla sicurezza nazionale che punisce severamente chiunque metta in discussione il potere di Pechino sulla regione. Finora la vittima principale della nuova legge è stato l’editore dissidente, Jimmy Lai, ma anche diversi attivisti sono stati condannati tra cui Joshua Wong che dovrà affrontare una pena di 13 mesi e mezzo di carcere per avere organizzato un raduno anti governativo.
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