Uno dei presupposti della democrazia, cioè che vinca il candidato che prende più voti, è un paradosso
- Quando ci sono due sole alternative, l’unico sistema di votazioni possibile è la votazione a maggioranza assoluta. Ma negli Stati Uniti non è detto che chi vince il voto popolare diventi presidente.
- Anzitutto i candidati non sono soltanto due, nonostante le apparenze. Inoltre, non c’è nessun metodo che permetta di amalgamare insieme gli ordini di preferenze individuali degli elettori in un ordine sociale.
- Per questo i padri fondatori proposero il sistema complicato dei voti elettorali, cercando di tenere nel debito conto sia i voti ottenuti globalmente dai candidati, sia quelli ottenuti nei vari stati.
Le elezioni statunitensi del 2020 hanno mostrato ancora una volta un loro aspetto paradossale: il fatto, cioè, che un candidato come Joe Biden che prende la maggioranza dei voti popolari, non viene automaticamente eletto fino a quando non conquista anche la maggioranza dei voti elettorali.
Anzi, può non risultare affatto eletto, alla fine, com’è già successo per ben cinque volte: le ultime due nel 2000 e nel 2016, quando rispettivamente Al Gore perse contro George W. Bush, e Hillary Clinton contro Donald Trump. L’aspetto paradossale sta nel fatto che sembra ovvio ritenere che, fra due candidati, quello che prende più voti debba vincere. Detta così, l’affermazione non soltanto è intuitivamente ovvia, ma è addirittura matematicamente dimostrabile: l’ha dimostrata l’economista Kenneth May nel 1950, a partire da alcuni ovvi assiomi sulla democrazia.
Il primo è che gli elettori devono avere libertà di voto, nel senso di poter disporre le opzioni o i candidati nell’ordine di gradimento che preferiscono, e poter esprimere le proprie preferenze mediante un voto. Il secondo è che il voto dev’essere anonimo, per far sì che nessun votante sia privilegiato, all’insegna del motto «un uomo, un voto». Il terzo è che il risultato delle elezioni deve dipendere unicamente dai voti espressi dagli elettori, e non da altri fattori collaterali. Il quarto, infine, è che i candidati che prendono più voti hanno più diritto di vincere di quelli che ne prendono meno, a parità di altre condizioni.
Più di due alternative
Questi assiomi bastano a dimostrare che, quando ci sono due sole alternative, l’unico sistema possibile è appunto la votazione a maggioranza assoluta. Ci si potrebbe dunque chiedere perché non si usi questo sistema nelle elezioni presidenziali statunitensi, e la prima risposta è che in realtà i candidati non sono affatto soltanto due, nonostante le apparenze.
Anzitutto, ci sono spesso candidati indipendenti, anche se l’unico che finora è riuscito a vincere fu George Washington: quest’anno erano una ventina, la maggior parte dei quali predestinata a prendere soltanto una manciata di voti. Molte manciate possono però fare un mucchietto consistente, sufficiente a impedire a uno dei due candidati principali di raggiungere la maggioranza assoluta dei votanti: ad esempio, nelle elezioni del 1992 e del 1996 Bill Clinton non la ottenne, mentre in quelle del 2008 e del 2012 Barack Obama sì.
Ma, soprattutto, un consistente mucchietto di voti dispersi può contribuire a determinare l’esito della votazione finale, togliendo a uno dei due candidati principali i voti necessari a superare l’altro: sembra che così sia stato nel 2000, quando i voti dati a Ralph Nader contribuirono a far perdere Al Gore contro Bush.
Quand’anche non ci fossero candidati indipendenti, però, i rappresentanti dei due principali partiti vengono comunque scelti attraverso il meccanismo delle primarie, e questo fa sì che i candidati presidenziali siano sempre molti più di due, anche se nelle elezioni finali di novembre gli altri sono ormai scomparsi e dimenticati. Lo stesso succede nei campionati europei o mondiali di calcio, ad esempio, dei quali però nessuno direbbe che sono stati giocati soltanto dalle due squadre che hanno raggiunto la finale, dopo i vari gironi di eliminazione.
Poiché dunque ci sono in genere più di due candidati alla presidenza, il teorema di May non si può applicare, e non è affatto ovvio che il candidato che prende il maggior numero di voti debba necessariamente essere il vincitore. Ad esempio, se i candidati fossero tre, e i voti fossero distribuiti in modo che il primo ne prende 1/3 più uno, il secondo 1/3 esatto e l’ultimo 1/3 meno uno, il minimo scarto di due soli voti tra il primo e l’ultimo non sarebbe significativo, a fronte del fatto che ciascun candidato ha preso circa 1/3 dei voti, e risulta dunque non essere il preferito da una maggioranza qualificata di 2/3 dei votanti.
I padri fondatori degli Stati Uniti sapevano benissimo queste cose, e hanno cercato di risolvere il problema in maniera razionale e universalmente condivisibile, a differenza dei riformatori costituzionali da strapazzo che si sono alternati negli ultimi decenni da noi, da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi a Luigi Di Maio, tutti mossi unicamente dalla pretesa di imporre all’intero paese le riforme che essi pensavano potessero privilegiare anzitutto loro stessi, e in subordine il loro partito.
Poiché il teorema di May mostra come procedere nel caso di due candidati, la soluzione più ovvia quando ce ne sono più di due sembrerebbe essere il torneo all’italiana: cioè, contrapporre i candidati a coppie, in tutti i modi possibili, per vedere chi vince di volta in volta. Il numero di elezioni necessarie per completare il torneo è 3 con tre candidati, 6 con quattro, 10 con cinque, e così via.
Il metodo del torneo sembrerebbe essere ottimo, se non fosse che nel 1785 il marchese di Condorcet scoprì che può portare a una paradossale situazione circolare in cui, nel caso di tre candidati, il primo vince contro il secondo, il secondo contro il terzo, ma il terzo contro il primo. In questo caso non ci sarebbe nessun vincitore, perché tutti parteciperebbero a due elezioni, vincendone una e perdendo l’altra. Purtroppo, in genere ci si dimentica di questo problema, e invece di presentare ciascun candidato contro gli altri due ci si limita a procedere per eliminazione: il primo candidato si presenta contro il secondo, il vincitore contro il terzo, e il vincitore dell’ultima elezione viene dichiarato vincitore finale.
È quello che è appunto successo nelle elezioni del 2016, quando Trump ha vinto le elezioni di novembre contro la Clinton, che aveva vinto le primarie democratiche contro Bernie Sanders, ma i sondaggi dicevano che Sanders avrebbe vinto contro Trump. In casi come questi, il vincitore viene determinato soltanto dall’ordine delle votazioni: per far vincere la Clinton, sarebbe bastato farla competere con il vincitore tra Sanders e Trump, e per far vincere Sanders, farlo competere con il vincitore tra Trump e Clinton.
La stessa situazione si era già proposta nel 1976, quando Carter vinse le elezioni di novembre contro Gerald Ford, che aveva vinto le primarie repubblicane contro Ronald Reagan, ma i sondaggi dicevano che Reagan avrebbe vinto contro Carter, come poi fece effettivamente nelle elezioni del 1980. Ma un sistema elettorale come questo, in cui il vincitore fra tre candidati potrebbe essere indifferentemente uno dei tre, non è soltanto determinato dai voti espressi dagli elettori, bensì anche dall’ordine di votazione scelto: cioè, non soddisfa a uno degli assiomi che permettevano di dimostrare il teorema di May per le elezioni con due soli candidati.
Il metodo che funziona non esiste
Naturalmente, il torneo all’italiana non è che uno dei metodi possibili, e si potrebbe pensare che se quello non funziona, ce ne sarà qualcun altro che invece va bene. Nel 1951 Kenneth Arrow si pose il problema di determinarlo, ma con sua sorpresa scoprì che invece non esiste: non c’è nessun metodo che permetta di amalgamare insieme gli ordini di preferenze individuali degli elettori in un ordine sociale che, da un lato, soddisfi agli assiomi della democrazia enumerati agli inizi, e dall’altro lato, non soffra di problemi come quello mostrato dal paradosso del marchese di Condorcet.
Questo risultato letteralmente rivoluzionario, che valse ad Arrow il premio Nobel per l’economia nel 1972, dimostra in sostanza che la democrazia non esiste. O, per dirla in maniera meno brutale nella forma, ma equivalente nella sostanza, dimostra che l’idea intuitiva che abbiamo della democrazia, sintetizzata negli intuitivi assiomi citati agli inizi, è irrealizzabile, e si può soltanto approssimare: cosa che d’altronde vale in generale nella vita, come conferma la massima che «l’ottimo è nemico del buono».
Per questo i padri fondatori proposero un sistema complicato come quello dei voti elettorali, cercando di tenere nel debito conto non soltanto i voti ottenuti globalmente dai candidati nell’intera unione, ma anche quelli ottenuti localmente nei vari stati. I loro interessi erano sicuramente anche di natura matematica, almeno per personalità eclettiche quali Thomas Jefferson e James Madison, ma tendevano soprattutto ad assegnare un ruolo politico non soltanto ai cittadini, ma anche agli stati: cosa evidente nella struttura del congresso degli Stati Uniti, dove il numero dei deputati è proporzionale alla popolazione, ma quello dei senatori al numero degli stati.
Purtroppo, il sistema dei voti elettorali è incompatibile con quello dei voti popolari, nel senso che i due sistemi possono appunto essere in conflitto, come dimostrano i casi citati, in cui il vincitore dei voti elettorali non è lo stesso del vincitore dei voti popolari. Il che non è altro che una manifestazione di un altro famoso paradosso, descritto da Edward Simpson nel 1951, ma scoperto almeno mezzo secolo prima, secondo il quale gli stessi dati statistici si possono a volte leggere in due maniere contrapposte, a seconda che vengano scorporati a gruppi, o considerati globalmente.
Comunque, per questa volta Biden ha vinto secondo entrambi i sistemi, come Obama, e può dunque essere considerato il legittimo vincitore di queste elezioni.
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