- Un’organizzazione che per conto degli inserzionisti valuta l’affidabilità dei media ha boicottato varie testate americane per ragioni politiche.
- Secondo un’inchiesta del Washington Examiner, un magazine conservatore, una di queste strutture, il Global Disinformation Index (Gdi) sarebbe venuto meno alla sua missione che in teoria sarebbe quella di «valutare la suscettibilità delle testate d’informazione alla disinformazione».
- Anche il fondatore di NewsGuard, Gordon Crovitz, ex editore del Wall Street Journal, ha criticato aspramente i criteri opachi di Gdi, in un editoriale pubblicato proprio sul Washington Examiner.
Uno dei problemi globali dell’informazione in rete riguarda la disinformazione. La diffusione delle notizie false è un problema non soltanto politico e sociale, ma anche, per i brand che fanno pubblicità online, una questione di affidabilità nei confronti nel grande pubblico.
Così alcuni di loro si affidano a centri di ricerca specializzati per valutare in modo imparziale l’affidabilità dei mezzi d’informazione. O almeno così dovrebbe essere. Secondo un’inchiesta del Washington Examiner, un magazine conservatore, una di queste strutture, il Global Disinformation Index (Gdi) sarebbe venuto meno alla sua missione che in teoria sarebbe quella di «valutare la suscettibilità delle testate d’informazione alla disinformazione» e di «aiutare gli investitori pubblicitari a gestire la reputazione del loro brand ed evitare che finanzino strutture che diffondo fake news online».
Il problema è che questi criteri avrebbero colpito in modo sproporzionato siti e giornali vicini alla destra conservatrice, indicati come «maggiormente rischiosi» per gli investitori: le dieci peggiori testate appartengono tutte a quell’area politica mentre i migliori, con la notevole eccezione del Wall Street Journal, fanno parte di quel mondo mainstream vicino all’ala istituzionale dei democratici.
Non parliamo soltanto di due testate indubbiamente ultratrumpiste come One America News Network e Newsmax, che all’indomani delle elezioni presidenziali del 2020 hanno diffuso la bufala delle elezioni «rubate». In questo elenco ci sono anche magazine conservatori eterodossi come The American Conservative, il magazine liberista Reason, noto per le sue critiche all’eccessivo peso del governo federale statunitense e persino il portale Real Clear Politics, che aggrega dati e articoli politici e produce analisi e commenti. Infine, il Washington Examiner, che ha lanciato l’inchiesta.
Insomma, un complesso mosaico di testate molto diverse tra loro e che forse hanno in comune soltanto il fatto di ospitare critiche puntute delle politiche promosse dall’attuale amministrazione di Joe Biden.
Chi finanzia i controllori
Questa è una parte del problema, dato che Gdi ha accusato Amazon di aver scelto proprio l’Examiner per i suoi banner pubblicitari e questo boicottaggio nascosto può far perdere una preziosa linea di finanziamento a questi siti finiti in una blacklist che usa criteri poco chiari di valutazione.
L’altra parte del problema è che il Gdi ha ricevuto, secondo le rivelazioni dell’Examiner, 330mila dollari di finanziamento da parte del National Endowment for Democracy, un’associazione integralmente finanziata dal dipartimento di Stato americano. Creando un pericoloso cortocircuito politico: sia pur indirettamente, il governo finanzia una struttura che contribuisce al boicottaggio economico di alcune testate che ospitano critiche sgradite all’amministrazione.
In realtà le stesse valutazioni, a leggerle, fanno venire più dubbi che altro. Prendiamo quella riguardante Reason: si dice che è ad alto rischio perché non rende pubblici i criteri di «attribuzione autoriale degli articoli, i criteri di fact checking usati prima della pubblicazione e le procedure per le rettifiche ex post.
Inoltre, non vengono usate policies di moderazione dei commenti» e pur riconoscendo che «non prende di mira gruppi specifici», secondo Gdi, Reason «usa un linguaggio sensazionalistico per i propri articoli». Un po’ poco per dire che si tratta di un media ad alto rischio.
Non a caso la testata ha risposto con un piccato editoriale di uno dei suoi commentatori, Robby Soave, che rigetta queste accuse, pur ammettendo che in effetti il motto della testata,“libere menti e liberi mercati”, impedisce loro di moderare i contenuti dei commenti.
Anche il fondatore di NewsGuard, Gordon Crovitz, ex editore del Wall Street Journal, ha criticato aspramente i criteri opachi di Gdi. In un editoriale pubblicato proprio sul Washington Examiner, a cui Newsguard assegna un punteggio di 92,5 punti su 100, ha affermato che la loro organizzazione usa «criteri strettamente apolitici» per definire l’affidabilità delle testate e che tutto il lavoro viene svolto da esseri umani e non dagli algoritmi.
In caso contrario, afferma «può succedere quello che è accaduto alla compagnia assicurativa Geico, di proprietà del miliardario Warren Buffett. Sicuramente lui non intendeva affatto essere uno dei maggiori investitori pubblicitari del sito Sputnik News, interamente sponsorizzato dal Cremlino e che diffonde bufale sull’Ucraina definita come uno “stato nazista”». Non solo: l’approccio utilizzato da Newsguard consente anche ai siti che vengono indicati come poco affidabili di migliorare alcuni criteri anche utilizzando l’aiuto dei loro analisti.
Dopo il Twitter files
Dopo la lunghissima inchiesta dei Twitter Files preparata dai giornalisti Matt Taibbi, Bari Weiss e altri e pubblicata sulla stessa piattaforma per volere del nuovo proprietario, Elon Musk, emerge dunque un altro caso nel quale una struttura poco nota quale il Gdi ha promosso il blacklisting di alcuni siti che Newsguard ritiene integralmente affidabili, come la già citata Reason, che prende un punteggio di 100 punti su 100.
Un esempio di bias da parte di Gdi è invece quello che riguarda l’edizione americana dell’HuffPost, che secondo Gdi fa parte del gruppo delle testate più affidabili e che invece secondo NewsGuard ha un punteggio di 87,5 punti su 100, inferiore quindi a quello di due magazine liberal-conservatori come il Washington Examiner e Reason.
Alcuni deputati repubblicani, tra cui la trumpiana Elise Stefanik, hanno annunciato un’indagine per evitare che il governo federale finanzi delle «organizzazioni woke come Gdi». Un assunto curioso da parte sua, dato che nel 2020-21, il periodo preso in analisi dall’inchiesta, Stefanik sedeva nel board del National Endowment for Democracy.
Non solo: una seria indagine del fenomeno come questa rischia di venire sepolta da altre inchieste più mediatizzate contro l’amministrazione Biden e quindi di venire sminuita agli occhi dell’opinione pubblica come uno dei tanti stunt mediatici del moderno partito repubblicano trumpizzato.
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