Questo testo è tratto dal libro di Mario Giro Guerre nere. Guida ai conflitti nell'Africa contemporanea, pubblicato da goWare e Edizioni Angelo Guerini e Associati
- Nel 2019 il Conflict Barometer calcolava che nel continente subsahariano si contavano 23 dispute e crisi non violente (al posto di 25 nel 2018); 45 crisi violente (al posto di 46); 8 guerre limitate (al posto di 9) e 5 guerre al posto di 6.
- Le guerre in Africa, più che aumentare di numero, tendono a incistarsi e a perpetuarsi. Spesso rimangono contenute al livello locale, il che non le fa considerare dagli analisti come guerre vere e proprie.
- Acquisiscono dimensione mediatica e politica grazie a forme di spettacolarizzazione orchestrate da fuori. Ma le cose non stanno sempre come appaiono.
Nel 2019 il Conflict Barometer calcolava che nel continente subsahariano si contavano 23 dispute e crisi non violente (al posto di 25 nel 2018); 45 crisi violente (al posto di 46); 8 guerre limitate (al posto di 9) e 5 guerre al posto di 6. Queste ultime sono: quella della Repubblica Democratica del Congo (terrorismo e ribellione in Ituri e conflitto contro i Maï-Maï, una milizia etnica); le guerre contro i jihadisti del Gsim e del l’Iswap nel Sahel; quella contro i Boko Haram in Nigeria, Camerun, Niger e Ciad e infine l’annoso conflitto in Somalia.
Guerre sfuggenti
Da tale sintetica analisi appare che le guerre in Africa, più che moltiplicarsi e aumentare di numero, tendono a incistarsi e a perpetuarsi. Spesso rimangono contenute al livello locale, una caratteristica peculiare che non le fa considerare dagli analisti come guerre vere e proprie. Nel 2019 il maggior numero di conflitti si registra ancora in Medio Oriente e Maghreb, con le guerre di Siria, Yemen e Libia, e così sembra proseguire il 2020.
In tutti e tre questi casi si tratta di conflitti che coinvolgono vari attori internazionali, divenendo minacciosi per la stabilità globale. Come per ogni classifica prodotta dai centri di analisi, si tratta di indicatori discutibili. Tuttavia emerge una tendenza generale: la caratteristica conflittuale africana è intestina, intrastatale e apparentemente etnica.
Rari sono gli scontri tra Stati e rarissimi i tentativi di strappare pezzi di territorio altrui: in buona sostanza le frontiere stabilite sulla base delle delimitazioni coloniali resistono e vengono accettate senza problemi. Se avvengono interventi di eserciti nazionali sui territori di un altro stato africano è mediante accordi e comunque non si tratta quasi mai di occupazioni permanenti.
Malgrado la crescita economica di questi ultimi quindici vent’anni, dovuta soprattutto alle esportazioni di materie prime, alle rimesse e agli investimenti diretti esteri, l’Africa resta nondimeno una terra difficile, cosparsa di conflitti che rappresentano circa un quarto delle guerre nel mondo. La particolarità di tali crisi violente è soprattutto la loro cronicizzazione: guerre interminabili o ricorrenti, inframmezzate da tregue e/o tempi di relativa calma.
Sahel e Grandi Laghi
È il caso del Sahel in guerra dall’inizio degli anni Sessanta, così come della regione dei Grandi Laghi, del Sudan e del Corno. Le guerre «nomadi» dell’Africa occidentale (ovvero il sistema conflittuale che ha contagiato via via Liberia, Sierra Leone, Guinea e Costa d’Avorio), chiamate del «Mano River» dal nome del fiume che attraversa l’area, paiono invece essersi arrestate sebbene non siano completamente scomparsi tensioni e rancori.
Tale tendenza a ripetere i cicli della violenza anche dopo varie generazioni offre un’immagine di conflitti incistati nella struttura socio-politica delle zone colpite. Nel caso del Sahel, ad esempio, tale sequenza inesauribile ruota attorno alla «questione nomade» e al «secessionismo tuareg», mai davvero affrontati in radice ma solo in termini di spartizione del potere tra élite.
Così anche nei Grandi Laghi la «questione della terra», intesa non come territorio politico-sovrano ma come luogo dell’identità (oltre che bene di sopravvivenza), non è mai stata posta realmente sul tavolo degli innumerevoli negoziati. È importante premettere che, mentre le analisi classiche sui conflitti ricercano un registro interpretativo principale (ideologico, politico, geopolitico, economico eccetera) per spiegarne origine e sviluppo, ammettendo altri registri solo in via subordinata, in Africa gli stessi protagonisti ne utilizzano più di uno allo stesso tempo dando loro il medesimo valore.
La questione della terra
Dalla fine della Guerra fredda i protagonisti dei conflitti africani ricorrenti, sia di parte istituzionale che ribelle, hanno lasciato che le ragioni della propria lotta fossero rappresentate almeno in occidente in termini di narrazione di tipo etnico. Ciò è parso loro più facile e comodo per spiegarsi invece che affrontare la questione contraddittoria della proprietà fondiaria della terra e dell’indissolubile legame «terra identità» prevalente in ambito rurale.
Tuttavia quest’ultima rappresenta molto spesso il «motore» iniziale del conflitto, concreto e simbolico al tempo stesso. In altre parole si preferisce utilizzare la logica etnica «di sangue e razza» fissata dal colonizzatore e facilmente decifrabile, piuttosto che quella tradizionale africana, più mobile, legata alle dinamiche dei ceti sociali, porosa e connessa ad ascendenze e lignaggi ma molto difficile da rappresentare. Tale controversia si ritrova nel conflitto ivoriano (2000-2010) così come in quello in corso oggi attorno al lago Ciad tra Boko Haram e altri soggetti.
La stabilità e tenuta stessa di molti paesi africani dipende dalla soluzione di tale questione. Sfugge ad esempio a una facile interpretazione la questione degli «alloctoni», che tra autoctoni e allogeni rappresentano una categoria africana diffusa, riferita allo sfruttamento della terra e soprattutto all’identità che se ne ricava. In altre parole: in Africa ogni persona e ogni famiglia reca con sé la storia del lignaggio in rapporto alla terra che ha lasciato e a quella che ha eventualmente occupato. Ciò permane in senso simbolico anche quando non vi è più una realtà oggettiva a rappresentarla.
Nomadi e governi
Nelle bidonvilles delle grandi città la questione della terra si appanna e scompare nel caos dell’urbanizzazione; non sempre però il suo portato simbolico che definisce le identità. Il conflitto tra nomadi e governi nazionali nel Sahel, frattura di cui stanno approfittando i jihadisti, rappresenta un caso tipico in cui la radice socio-economica e identitaria del confitto è stata affrontata mediante uno scambio diseguale tra élite, senza mai incidere sugli aspetti legati alla comunità reale. Ad esempio si dà per scontato che i «tuareg» siano un’entità sociologicamente unitaria quando ciò non è fondato, oppure si gioca sulle divisioni interne delle etnie seminomadi mediante pregiudizi razziali e castali.
Per seguire le guerre saheliane fi n dagli anni Sessanta è essenziale comprendere almeno un po’ la relazione che esiste tra lignaggi tuareg. Non è una sorpresa dunque che vi siano state finora cinque guerre di ribellione in quella regione senza che il tema delle comunità locali sia mai stato affrontato in maniera soddisfacente. È vero che esiste un’oggettiva difficoltà da parte di uno stato a trattare il «nomadismo» come fenomeno endogeno e non alieno alle civiltà o popolazioni circostanti. In tutti i continenti lo stigma riservato ai popoli nomadi è sempre stato causa di aggressioni xenofobe e sentimenti di assoluta estraneità.
Resta il fatto che la guerra nel Sahel ha assunto l’aspetto di un «sistema di conflitti» legato intimamente alla crisi algerina degli anni Novanta del secolo scorso, a quella libica degli anni Dieci di questo secolo, alle instabilità ciado-sudanesi e centrafricane e infine ai conflitti della costa meridionale ivoriano-guineana.
Le crisi del Sudan
Le numerose crisi del Sudan, inclusa la nascita del Sud Sudan nel 2011 e la successiva guerra civile iniziata nel 2013, rappresentano il lungo e controverso vissuto di un paese governato da una minoranza che detiene il potere fin dall’indipendenza del 1956. La separazione o le secessioni non sarebbero le uniche soluzioni sul tavolo se solo si affrontassero i contenziosi in maniera pluralista.
Lo stesso fondatore del Sudan People’s Liberation movement/army (Splm/a), John Garang, affermava di lottare per un «New Sudan» e non per la scissione. Lo scontro binario tra popoli dinka e nuer iniziato nel Sud Sudan subito dopo la recente indipendenza ha radici antiche: tra i due gruppi etnici (entrambi basati sulla pastorizia) esiste una vecchia rivalità mista a una certa familiarità che li ha resi entrambi molto diversi dalle altre etnie del paese.
Sia dinka che nuer sono stati poco raggiunti o trasformati dalla colonizzazione anglo-egiziana; ciò che realmente li separa è la scelta opposta fatta nella relazione con Khartoum: i nuer più dialogici; i dinka assolutamente ostili. I nuer si caratterizzano per una sorta di «etnicità militarizzata»: la cosiddetta «white army» presuppone che ogni nuer maschio sia pronto a combattere non appena terminati i suoi compiti di mandriano itinerante.
Anche quando i rappresentanti delle élite dinka e nuer si mettono d’accordo, l’influenza sul terreno presso le rispettive popolazioni non è garantita fino a che non si trovano allo stesso tempo soluzioni locali basate sugli approvvigionamenti, i punti d’acqua, le transumanze e così via. Anche questo non sarebbe sufficiente senza il coinvolgimento delle altre etnie presenti sul terreno come gli shiluk, i bari o gli azande.
Tale tipo di milizie etniche ha una sua autonomia che va oltre i programmi dei leader nazionali. Si potrebbe affermare che con il tempo elaborano un loro programma di priorità che può andare oltre le ragioni iniziali del conflitto, come si nota in Congo. Tali gruppi armati sono composti in massima parte da giovani impazienti, provvisti di armamenti e veicoli, difficili da disarmare quando la guerra termina con un accordo. Per i giovani rurali guerreggiare spesso diviene un’attività economica, autonoma dalla politica. La mediazione tra comunità locali non garantisce la sottomissione definitiva dei miliziani anche se gli ordini provengono da un capo indiscusso.
In certi casi la violenza si basa sull’iniziazione tradizionale che consente ai membri di interpretare l’ambito «mistico», cioè quello della manipolazione della rappresentazione del soprannaturale, basandosi su ragioni di sicurezza e di posizionamento all’interno della società tradizionale. Per le sue caratteristiche di segretezza, l’influenza della sfera «mistica» sfugge quasi sempre all’analisi degli esperti ma rimane importante per capire la solidarietà tra classi di età e la nascita di movimenti ribelli. I leader del tipo warlord (signori della guerra) utilizzano sovente tale registro per reclutare, improvvisandosi come leader mistico-religiosi.
Due facce della stessa guerra
La regione dei Grandi Laghi si caratterizza per l’alto numero di gruppi etnici e per la loro mobilità durante i secoli, fin dai tempi precoloniali. Di conseguenza uno dei motori fondamentali del conflitto è proprio quello dell’autoctonia legata alla terra e all’identità: una lotta tra chi ha più diritti da accampare sull’accesso alla terra e sulla sua proprietà. Come in altri contesti, conta molto di più il «confine» dell’autoctonia che quello internazionalmente riconosciuto. Ciò crea situazioni molto complesse se la regione è stata teatro di spostamenti di popolazione nel corso del tempo. L’apparente logica di scontro permanente che osserviamo da decenni nei due Kivu o in Ituri è essenzialmente dovuta alle ripetute manipolazioni del diritto a possedere la cittadinanza e conseguentemente del diritto a «stare sulla terra».
In maniera opportunista le rispettive élite hanno compiuto numerose contraffazioni politiche al punto che la guerra è presentata de facto sempre come etnico-comunitaria (per esempio al momento del reclutamento) anche se è divenuta in realtà economica (controllo dei traffici) nel quadro globale: sono due registri operanti allo stesso tempo. Da qui la complessità nello spiegarla. La medesima guerra possiede due volti: uno per i combattenti locali e uno per la comunità internazionale, assumendo un aspetto ibrido che si potrebbe anche definire «glocale», molto al passo con i tempi.
È noto che i conflitti africani acquisiscono la loro dimensione mediatica – e di conseguenza politica – grazie a forme di spettacolarizzazione orchestrate e gestite da fuori. Ciò comporta la loro consacrazione come conflitti internazionali e non oscuri massacri locali. Tuttavia le cose non stanno sempre come appaiono.
Ad esempio una vicenda bellica che ricevette una significativa attenzione internazionale specialmente nel mondo anglofono fu il raid del 15 aprile 2016 a Gambela, nel Sud-ovest dell’Etiopia, con il massacro di duecento pastori nuer, il rapimento di un centinaio dei loro figli e il furto di oltre duemila capi di bestiame da parte di aggressori appartenenti a un altro gruppo di pastori, i murle del Sud Sudan. Un attacco del tutto simile si è svolto nel marzo 2020 con oltre mille morti. A ben vedere si tratta di episodi di un grave conflitto locale, legato a rivalità per la terra e ai pascoli, che assume significato solo in quell’area.
Le poste in gioco invisibili
Al contrario, movimenti ribelli meno noti al grande pubblico come quelli che vediamo apparire ciclicamente in Congo-Brazzaville nella regione del Pool, non costituiscono un conflitto «locale»: in quel caso la posta in gioco è nazionale e cioè l’ambizione di prendere il potere nella capitale Brazzaville. Nel caso di Gambela rimane difficile interpretare tali sanguinosi scontri in una logica di occupazione del potere centrale nella capitale sud-sudanese Juba.
Eppure il raid di Gambela del 2016 provocò una serie di gravissime ripercussioni locali, con un ciclo di rappresaglie che continua tuttora ed è proseguito anche durante il periodo di lockdown dovuto al Covid-19. Vediamo quindi emergere una forma ibrida di conflitto: non ci fosse stata la precedente guerra civile al Sud, i pastori nuer non sarebbero dovuti fuggire oltre frontiera a Gambela e, molto probabilmente, non avrebbero impensierito i murle. Ma oggi questi ultimi vengono indirettamente utilizzati dai dinka in funzione anti-nuer.
Allo stesso modo sembrerebbe ragionevole trattare le azioni armate di Boko Haram intorno al lago Ciad come un problema almeno regionale: oltre alla Nigeria sono ormai coinvolti Niger, Ciad e Camerun. Tuttavia gli attacchi di questo movimento jihadista prevalentemente di etnia kanuri potrebbero anche essere affrontati da un punto di vista eminentemente locale. Quanto ai confini internazionali, spesso «invisibili» sul terreno al di fuori dei principali assi stradali, va detto che non separano lingue, usi e costumi.
È difficile in questo caso distinguere il «locale» dal «regionale», a meno che non ci si concentri solo sull’aspetto formale delle frontiere ereditate dalla colonizzazione, senza scavare nella realtà sociale indigena che produce tali ibridi.
Reti criminali
Non può stupire che in tali condizioni sia facile l’inserimento di elementi diversi non attinenti al conflitto stesso, come i traffici illegali e la criminalità organizzata. Una delle formule di sopravvivenza degli stati africani è legata alla resilienza delle reti criminali, alle quali possono connettersi poteri centrali fragili che non controllano l’intero territorio nazionale.
Il clientelismo predatorio o la cleptocrazia degli stati africani nascono sovente dalla necessità di assicurarsi basi più solide per resistere in un quadro economico internazionale estremamente instabile. Tale politica può essere la conseguenza di una frammentazione pericolosa e produrreessa stessa effetti pulviscolari di «warlordismo»: la creazione cioè di piccoli signori della guerra locali, sorta di imprenditori armati.
Scrive a tal proposito William Reno: «A differenza di altre tipologie di ribelli, i signori della guerra considerano come la loro priorità il controllo e l’espansione di reti informali di commercio clandestino mediante lo strumentodella violenza politica».
Mario Giro è autore del libro Guerre nere. Guida ai conflitti nell'Africa contemporanea, edito da goWare e Edizioni Angelo Guerini e Associati
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