Il discorso più famoso di Jimmy Carter – quello della “crisi di fiducia” dell’America, subito ribattezzato dai critici il discorso del “malaise”, il malessere – è una rielaborazione su sfondo battista di alcune intuizioni di Christopher Lasch, intellettuale di estrazione marxista molto amato dai conservatori.

Carter lo aveva invitato alla Casa Bianca nel 1979 dopo l’uscita del suo libro La cultura del narcisismo, nel quale indicava la crisi della famiglia patriarcale e la diffusione su larga scala di uno stile di vita opulento come i fattori che avevano determinato la disperata tendenza narcisista della psicologia del paese.

Con quell’inusuale discorso, molto più prossimo al sermone che al comizio, Carter sbatteva in faccia al paese la sua anima corrotta dal consumismo, le sue patologie non misurabili con gli indicatori economici, l'illusorio senso di appagamento che copriva un malessere esistenziale legato all’assenza di significato.

«In una nazione che era orgogliosa del duro lavoro, di famiglie forti, di comunità unite, e dalla nostra fede in Dio, troppi di noi ora tendono ad adorare il vizio e il consumo. L’identità umana non è più definita da ciò che uno fa, ma da ciò che uno possiede. Ma abbiamo scoperto che possedere e consumare cose non soddisfa il nostro desiderio di significato. Abbiamo imparato che accumulare beni materiali non può riempire il vuoto di vite che non hanno fiducia né senso», diceva Carter nel 1979.

Il suo discorso spiega molto del successo della destra trumpiana e dei movimenti populisti e identitari che si sono consolidati nell’ultimo decennio a diverse latitudini. Nell’America delle “morti per disperazione”, come le hanno chiamate gli economisti Anne Case e Angus Deaton in assenza di una definizione più calzante, il richiamo etnonazionalista del mondo MAGA ha parlato non soltanto al portafogli di cittadini impoveriti, ma alla coscienza vuota di generazioni affette da una qualche angoscia esistenziale che non ha nome, oppure ne ha troppi e per ciascuno si escogitano soluzioni o sedazioni inadeguate.

Il composito movimento populista ha superato il paradigma economicista che faceva dire a Bill Clinton “it’s the economy, stupid!”, confessando una visione del mondo nel quale non esistono problemi che non hanno soluzioni di tipo economico, a riprova del fatto che il discorso di Carter non era stato preso sul serio, ma accantonato come un inutile richiamo moralista.

Anche l’entusiasmo liberista di Ronald Reagan e il piglio civilizzatore di George W. Bush si appoggiavano a un ethos simile, e per questo sono stati rifiutati da una nuova generazione di conservatori critici verso il mercato, antagonisti delle esportazioni democratiche, disillusi dalle promesse di prosperità della finanza, ma soprattutto convinti che il grido dei senza voce nasca dalla ricerca di un significato nel mondo dominato dalla vacuità consumista delle élite liberali, anche nella loro versione di destra.

Troppo sbrigativamente si dice che è stata l’inflazione a dare la vittoria a Trump alle elezioni novembre. È una lettura che non tiene conto del fatto che il trumpismo nel suo processo di affermazione ha fatto leva su elementi culturali che costruiscono reti di significato per le persone, e si getta subito sulla vecchia spiegazione economicista che Carter aveva indicato come insufficiente.

Insomma, la destra trumpiana ha in qualche modo offerto una risposta al malessere denunciato dal presidente morto domenica scorsa. Una risposta disonesta, superficiale e in fin dei conti illusoria, ma che promette di dare nuovo vigore e grandezza a una società persa nelle sue introflessioni, schiava delle proprie voglie, delusa da anonime promesse di benessere.

Le varie articolazioni della destra populista mondiale presentano variazioni sullo stesso tema. Il nazionalismo aggressivo di Valdimir Putin, quello a tinte religiose di Modi, la destra sociale di Fratelli d’Italia, la restaurazione francese promessa da Marine Le Pen, la bruna iperdestra di Alternative für Deutschland e le loro vecchie e nuove reiterazioni si propongono, in fondo, di dare una risposta all’allarme esistenziale lanciato da Carter in quel discorso. Allarme evidentemente inascoltato dalla politica tradizionale.

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