Il paese lacerato che Luca Attanasio voleva trasformare non riesce a liberarsi dagli orrori che troppo spesso accompagnano le missioni. Le decine di denunce di abusi sessuali da parte di operatori affiliati alle Nazioni unite raccontano una storia che tragicamente si ripete
- L’ambasciatore Luca Attanasio era una splendida persona, e ha perso la vita in Congo perché voleva trasformare quel paese, aiutarlo a liberarsi dalle bande che – spesso dietro spinte di chi in occidente vuole controllare le miniere di metalli e terre preziosissime per la nostra elettronica – si contendono un territorio ricchissimo compiendo violenze e atrocità inaudite.
- Di aiuti internazionali, nel sud del Congo, ne sono piovuti davvero tanti. Dal 1999 è presente, prima sotto il nome di Monuc e poi dal 2010 sotto il nome di Monusco una forza di peacekeeping composta da più di 12mila caschi blu, a cui si sommano circa 1.200 civili inviati dall’Onu.
- A questi si aggiungono migliaia di cooperanti inviati dalle Ong internazionali. La presenza di militari e cooperanti nel Kivu risale alla fine della guerra genocida del Ruanda, quando migliaia di miliziani scapparono dal paese e si rifugiarono nella vicina Repubblica Democratica del Congo.
L’ambasciatore Luca Attanasio era una splendida persona, e ha perso la vita in Congo perché voleva trasformare quel paese, aiutarlo a liberarsi dalle bande che – spesso dietro spinte di chi in occidente vuole controllare le miniere di metalli e terre preziosissime per la nostra elettronica – si contendono un territorio ricchissimo compiendo violenze e atrocità inaudite. Voleva aiutare il resto del mondo a conoscere un paese tanto bello quanto sofferente del tutto ignorato dai media mainstream; aiutarlo, anche, a liberarsi dalle porcherie che troppo spesso gli aiuti internazionali si portano appresso.
E di aiuti internazionali, nel sud del Congo, ne sono piovuti davvero tanti. Dal 1999 è presente, prima sotto il nome di Monuc e poi dal 2010 sotto il nome di Monusco una forza di peacekeeping composta da più di 12mila caschi blu, a cui si sommano circa 1.200 civili inviati dall’Onu, che a dicembre 2020 ha prolungato di un anno la durata della missione.
A questi si aggiungono migliaia di cooperanti inviati dalle Ong internazionali. La presenza di militari e cooperanti nel Kivu risale alla fine della guerra genocida del Ruanda, quando migliaia di miliziani scapparono dal paese e si rifugiarono nella vicina Repubblica Democratica del Congo. Nella zona di foreste che attraversa Congo, Ruanda e Uganda, ricchissima di terre preziose come il coltan, si contano quasi 200 gruppi armati di diversa origine uniti dall’obiettivo di controllare le zone minerarie per intascare i proventi che le compagnie – occidentali quasi tutte – forniscono loro. Spesso queste milizie sono usate dalle stesse compagnie occidentali (o dai loro prestanome locali) che si strappano l’una con l’altra le zone minerarie dove si estraggono le terre con cui si costruiscono chip e circuiti elettronici dei nostri telefonini. Molti di loro sono ragazzini, non per questo meno violenti e sanguinari perché “addestrati” fin da piccoli alla ferocia.
Queste zone erano un tempo riserve di caccia di proprietà privata del Re Leopoldo del Belgio del quale si incontrano ancora le lussuose ville, affogate nella giungla e abitate solo da branchi di babbuini che si affacciano stupefatti dalle finestre al passare dei rari convogli. Oggi le Nazioni unite non riescono, nonostante i miliardi di dollari investiti in missioni militari, a riportare la pace o a controllare il territorio. Non solo perché sarebbe oggettivamente difficile controllare un territorio così complesso, ma anche perché fino a oggi non sono riuscite a farsi ben volere da una popolazione che dai tempi delle colonie ha subito solo angherie dalle popolazioni del ricco occidente. Probabilmente la ferocia gli abitanti del Kivu l’hanno imparata proprio dai belgi, usi a stupri, torture, esecuzioni di massa, deportazioni. Le passeggiate di Re Leopoldo costarono alla popolazione locale 30 milioni di morti.
Le denunce
E ancora oggi, salvo eccezioni, gli occidentali, che siano emissari delle compagnie minerarie o inviati delle Nazioni unite, non fanno molto per conquistare la fiducia dei locali, anzi. «Ha iniziato a togliermi i vestiti di dosso. Ho fatto un passo indietro, ma lui si è spinto contro di me e ha continuato a togliermi i vestiti. Ho iniziato a piangere e gli ho detto di smetterla ... non si è fermato, così ho aperto la porta e sono corsa fuori. Alla fine del mese il mio contratto non è stato rinnovato».
Questa è una delle cinquantuno denunce raccolte nella Repubblica Democratica del Congo da un’inchiesta del giornale The New Humanitarian, fondato dalle Nazioni unite nel 1995 dopo il genocidio del Ruanda insieme alla Fondazione Thomson Reuters. Nelle testimonianze raccolte, molte delle quali sono state confermate da autisti di agenzie umanitarie e operatori di Ong locali, le donne hanno raccontato numerosi episodi di abusi sessuali commessi tra il 2018 e il 2020 da cooperanti, da soldati delle forze Onu e da dipendenti di diverse agenzie umanitarie delle Nazioni unite o da qualcuno dei 1.500 dipendenti dell’Organizzazione mondiale della sanità mandati nel sud del Congo per contrastare l’epidemia di Ebola.
Quasi tutte le donne hanno denunciato di essere state costrette a fare sesso in cambio di un lavoro, o di aver perso il lavoro dopo aver rifiutato le pretese sessuali dei loro datori. Cuoche, addette alle pulizie o dipendenti di strutture di accoglienza per gli oltre 500mila profughi che la zona di Goma ospita. Donne del posto assunte generalmente con contratti lampo, pagate il doppio della media: ben 50 dollari al mese.
E i violentatori? Secondo l’inchiesta, molti degli uomini identificati dalle comprovate denunce erano europei, prevalentemente provenienti da Francia e Belgio, poi alcuni canadesi, ivoriani e guineiani. Le donne erano avvicinate in genere al di fuori dei principali supermercati di Beni, una cittadina del nord del Kiwu al confine con l’Uganda, o direttamente nei centri di reclutamento del lavoro o persino all’esterno degli ospedali dove erano affissi gli elenchi delle lavoratrici giudicate idonee, che avrebbero dovuto pagare con il loro corpo la nuova assunzione.
Una di loro ha raccontato che «la pratica degli uomini che chiedono sesso era diventata così comune che era l’unico modo per trovare un lavoro». Un passaporto per il lavoro, lo ha definito un’altra delle denuncianti. Uomini che lavoravano per fermare l’epidemia di Ebola e per sostenere gli sfollati di guerra che però, secondo diverse testimonianze, «si rifiutavano abitualmente di indossare il preservativo».
Gli abusi in hotel
«L’Unicef ha ricevuto tre diversi rapporti che hanno coinvolto anche organizzazioni partner delle Nazioni unite», ha dichiarato il portavoce Jean-Jacques Simon, che però si è rifiutato di fare i nomi delle Ong coinvolte. «I casi sembrano essere diversi da quelli scoperti dai giornalisti» di The New Umanitarian e della Fondazione Thomson Reuters. «Nonostante i nostri più intensi sforzi, i casi di sfruttamento e abuso sessuale nella Repubblica Democratica del Congo rimangono ampiamente sottostimati», ha concluso amaramente Simon.
Altre donne di Beni hanno denunciato che la maggior parte degli incontri sessuali ha avuto luogo in hotel che fungevano anche da uffici per gli uffici delle Nazioni unite e delle Ong. Tra i luoghi preferiti c’erano l’hotel Okapi Palace e l’hotel Beni, dove gli internazionali avevano uffici e spesso occupavano intere aree degli alberghi. Testimonianze confermate dagli autisti, anche loro protetti dall’anonimato. «Era molto normale», ha detto uno degli autisti. «Direi che la maggior parte di noi portava gli uomini o le loro vittime da e verso gli hotel per incontri sessuali. Una cosa normale, come comprare cibo al supermercato». O come morire per una raffica di Kalashnikov sparata da uno delle migliaia di miliziani, spesso ragazzini, in uno dei parchi naturali più belli e dimenticati del mondo.
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