- A Shanghai, Pechino, Urumqi, Nanchino e Wuhan scoppiano manifestazioni di protesta mai viste dai tempi di Tiananmen.
- La solidarietà alle minoranze dello Xinjiang si mischia alla rabbia per la brutale politica “zero Covid” e per la censura del regime.
- I ragazzi protestano agitando cartelli bianchi e mostrando fiori dello stesso colore, simbolo del lutto. È l’inizio di un nuovo movimento, come quello del 1989? Troppo presto per dirlo. Ma ai germogli di una protesta che è tutta politica non manca il terreno fertile per crescere.
La protesta, clamorosa, è iniziata nel cuore della notte di Shanghai, alle 2:00 di ieri, quando centinaia di giovani hanno acceso candele e deposto mazzi di fiori bianchi (il colore del lutto in Cina) nella centralissima via Urumqi.
Un luogo simbolo, scelto, attraverso il tam-tam via Telegram, per attaccare frontalmente la politica “contagi zero” voluta dal presidente Xi Jinping.
A Urumqi, il capoluogo dello Xinjiang, giovedì scorso sono morte almeno dieci persone in uno dei drammi che si ripetono, tutti tragicamente uguali, da quando le chiusure anti Covid si sono fatte sempre più rigide, apparentemente insensate.
I soccorritori non sono riusciti a raggiungere le famiglie intrappolate nel rogo di un palazzo, perché l’accesso all’area era stato bloccato per non permettere ai residenti di uscire.
Già venerdì nella grande regione del nord ovest ci sono state diverse marce di cittadini infuriati, che hanno indotto le autorità locali a parziali riaperture.
Sabato a Shanghai i ragazzi hanno colto di sorpresa la polizia, che è accorsa poco dopo, effettuando i primi fermi.
Nonostante la presenza di centinaia di agenti nei viali alberati costeggiati da bar e boutique, la manifestazione è rinata ieri pomeriggio, quando gli studenti si sono prima confusi tra chi passeggiava nell’ex concessione francese, per poi assembrarsi nuovamente su via Urumqui con i loro fiori bianchi, mentre manifestazioni simili si registravano nei campus delle università di Pechino, Nanchino e Wuhan.
Nella capitale, all’interno del campus della Tsinghua, migliaia di studenti si sono riuniti gridando: «Democrazia, stato di diritto, libertà di espressione!».
Censura
Gli studenti di Shanghai mostrano fogli A4 bianchi, in segno di cordoglio per le vittime del Xinjiang (che sarebbero di etnia sia han che uigura), ma anche contro la censura, che ormai riesce a rincorrere e cancellare alla velocità della luce i messaggi sgraditi su WeChat (il Whatsapp locale).
Eppure circola e diventa virale un post che mette contrappone Xi a Mao, le ripercussioni di “contagi zero” alle citazioni del libretto rosso, e si conclude col celeberrimo, incendiario slogan maoista: «Una scintilla può dar fuoco a tutta la prateria».
È l’inizio di un nuovo movimento, come quello del 1989? Troppo presto per dirlo. Certo ai germogli di una protesta che è tutta politica non manca il terreno fertile per crescere, rappresentato dalle difficoltà economiche (un’acuta sofferenza nel caso di milioni di migranti che hanno perso il lavoro nel settore dei servizi e dell’edilizia, assieme ben oltre la metà del Pil) anch’esse accentuate da restrizioni draconiane che, negli ultimi giorni, il governo ha attenuato in minima parte.
Le rivolte delle ultime settimane alla Foxconn di Zhengzhou e nel distretto del tessile di Guangzhou sono lì a dimostrare la possibile saldatura tra il malcontento operaio e quello studentesco, in tante megalopoli, in aree molto diverse del paese.
La leadership che si vanta di avere un approccio alle politiche “incentrato sulle persone” sta subendo una contestazione – senza precedenti dalla rivolta di piazza Tiananmen – da una parte consistente del popolo che non ne può più delle chiusure.
Gli studenti cinesi, non dimentichiamolo, sono stati isolati nei campus per mesi, da tre anni sono costretti a studiare poco e male, per le chiusure che li tengono separati tanto dai docenti quanto dalle famiglie.
Mentre i positivi (quasi tutti asintomatici) nelle ultime settimane sono saliti a centinaia di migliaia, la situazione è molto tesa anche a Pechino, dove si segnalano tanti casi di resistenza della popolazione ai provvedimenti restrittivi delle autorità, che nonostante tutto vanno avanti con la costruzione di nuove strutture prefabbricate, per accogliere altre persone da isolare in quarantena.
Essere i primi
«Riusciamo ad accedere ai media occidentali, sappiamo che nel resto del mondo si può andare in giro liberamente», ci dice un giovane ingegnere elettronico, trasferitosi da anni a Shanghai proprio da Urumqi.
«C’è un solo motivo per cui il partito comunista continua con queste chiusure ridicole: vogliono dimostrare di essere i primi al mondo, quelli che meglio degli altri sono riusciti a contenere il numero delle vittime», finora ufficialmente 5.232.
Il Covid ha mandato in frantumi in Occidente l’immagine della Cina, ma la classe media istruita cinese si fida più dell’Occidente che ha subìto milioni di morti che dei suoi governanti che una propaganda screditata dipinge come intenti a fare qualsiasi cosa pur di proteggere le persone.
Una gigantesca mobilitazione delle strutture di base del partito comunista che sta prosciugando le finanze degli enti locali con la pretesa di implementare un sistema “scientifico” guidato dal comandante della «guerra popolare contro il coronavirus» (Xi Jinping) si sta trasformando in un gigantesco boomerang per il partito che governa ininterrottamente la Cina dal 1949.
Una zappa sui piedi dagli effetti potenzialmente destabilizzanti mentre l’inverno si avvicina, e i contagi aumentano assieme alla confusione generata dal recente allentamento delle restrizioni, nuove regole sempre più complicate che milioni di funzionari locali interpretano ognuno a modo suo.
Probabilmente mezza Cina ha ancora paura del virus, e ne ha ben donde, in un paese che ha a disposizione vaccini scadenti, un sistema sanitario fragilissimo e dove gli anziani non vogliono vaccinarsi.
Ma i giovani più istruiti delle metropoli (e i lavoratori migranti) non ne possono più. Le chiusure sempre più insopportabili sono il pretesto – ci conferma Zhou (nome di fantasia) – per «ribellarci contro il peggior governo della storia della Cina».
La folla, per la maggior parte fatta di studenti universitari, grida slogan contro le chiusure anti Covid ma, soprattutto, irripetibili ingiurie alla Beppe Grillo contro Xi Jinping (“invitato” a dimettersi) e all’indirizzo del Partito comunista cinese.
Rapidamente però lo schieramento delle forze dell’ordine si fa imponente, un migliaio di uomini in divisa (e chissà quanti in borghese) contro qualche centinaio di studenti. I manifestanti cercano di resistere, ma vengono sopraffatti dalla quantità di poliziotti, che effettuano decine di fermi mentre l’area, in giorni normali destinata allo shopping e al divertimento, appare in stato d’assedio.
Nonostante ciò, mentre su Shanghai calano le tenebre, i giovani continuano ad aggirarsi e a protestare attorno all’ampia area isolata dalla polizia. Forse si è davvero accesa una scintilla che può dare fuoco a tutta la prateria.
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