Il memoriale che ricorda le 300mila vittime del massacro del 1937 oggi è meta di pellegrinaggio dei giovani. Dopo la fase della «amnesia benevolente», ora il regime dà più visibilità al ricordo degli orrori giapponesi
Nei fine settimana davanti al “Memoriale delle vittime del massacro di Nanchino perpetrato dagli invasori giapponesi” c’è sempre una lunga fila. Un impiegato distribuisce crisantemi bianchi che i cinesi depongono, alla fine della visita, su una lapide dedicata a uno dei crimini di guerra più efferati della storia contemporanea, la distruzione della antica «capitale del sud» (nán jīng) e le uccisioni di massa dei suoi abitanti da parte delle truppe imperiali nipponiche iniziate il 13 dicembre 1937.
«Rubano e stuprano, appiccano incendi e seppelliscono le persone vive, hanno ammazzato anche il mio nipotino di tre mesi» c’è scritto sul piedistallo di una statua bronzea della sequenza che – lungo la strada che conduce all’entrata – raffigura i sopravvissuti in fuga.
L’imponente struttura è stata realizzata in blocchi di cemento grigio, creando un colore uniformemente triste. Qi Kang, l’architetto di Nanchino che ha disegnato il memoriale-museo (ingranditi due volte, nel 1995 e nel 2007) ha messo in campo una estetica cupa, creando la sensazione di “entrare in una tomba”.
Il numero dei morti è inciso in tutte le lingue del mondo sulle pareti del memoriale, ben visibile da ogni punto della spianata d’ingresso al museo: «Trecentomila vittime». Una cifra non ufficialmente riconosciuta, ma per la maggior parte degli storici molto più vicina alla realtà rispetto al revisionismo giapponese, secondo cui le vittime sarebbero state poche decine di migliaia. Secondo il Tribunale militare per l’estremo oriente i morti furono almeno duecentomila.
Tra storia e politica
La Repubblica popolare cinese non li ha trattai sempre allo stesso modo. Tra la resa del Giappone (il 2 settembre 1945) e l’inizio degli anni Ottanta, gli orrori di Nanchino furono offuscati da quella che gli storici hanno chiamato «amnesia benevolente».
Il Partito comunista cinese (Pcc) evitò di rivangarli, perché evocavano un dominio coloniale al riscatto dal quale avevano contribuito in maniera determinante i rivali del Koumintang, e perché, a partire dagli anni Sessanta, Mao puntò a normalizzare i rapporti col Giappone in funzione anti-sovietica.
E così i 45 prigionieri incriminati dai tribunali militari cinesi furono rispediti in Giappone nel 1964, e i dibattiti sulle atrocità belliche furono vietati in quanto «dannosi per l’amicizia sino-giapponese». Una ventina d’anni dopo la musica cambiò quando l’Urss di Gorbaciov si riavvicinò alla Cina, mentre il boom economico, il rafforzamento della difesa e l’alleanza militare con gli Stati Uniti del Giappone fecero riesplodere i dissidi tra Pechino e Tokyo.
È in quel contesto che fu costruito, nel 1984, il “Memoriale delle vittime del massacro di Nanchino perpetrato dagli invasori giapponesi”, seguito dal “Memoriale della guerra di resistenza popolare contro il Giappone” inaugurato tre anni più tardi a Pechino, e dal Museo sulla storia del 18 settembre aperto a Shenyang nel 1992.
In quegli stessi anni furono prodotti decine di film di propaganda sull’occupazione giapponese. Il sinologo James Reilly ha sottolineato che questa «campagna di educazione patriottica non era progettata per promuovere sentimenti anti-giapponesi. Piuttosto, è stata concepita come un modo per rafforzare il sostegno popolare al partito e ai suoi obiettivi di sviluppo economico, unità nazionale e rafforzamento dello stato».
La terza fase – ricorda Riley nel suo saggio Remember History not Hatred – incomincia quando, a metà degli anni Novanta, un gruppo di storici-attivisti cavalca la popolarità di internet per chiedere compensazioni per le vittime e commemorazioni ufficiali. A partire dal 2005, il partito è costretto a una campagna per riaffermare la più moderata linea ufficiale tra i suoi funzionari, nelle università e nei media. «Non alimentate il fuoco del sentimento anti-giapponese, aiutateci a spegnerlo» chiedevano allora aiuto i siti cinesi di news.
Gara di decapitazioni
L’accoltellamento, lunedì scorso, di una donna giapponese e di suo figlio nella città di Suzhou (non lontano da Shanghai) a opera di un disoccupato cinquantaduenne ha riproposto il problema del nazionalismo anti-nipponico in Cina.
Secondo il ministero degli Esteri di Pechino si è trattato di un «incidente isolato» che potrebbe verificarsi in qualsiasi parte del mondo. Eppure, prima che le discussioni sull’episodio venissero oscurate dalla censura, sui social media si era diffusa la voce di un attacco politico. E il Japan Times ha ricordato che in Cina «i sentimenti anti-giapponesi sono aumentati in parte a causa dello sversamento nell’oceano di acqua trattata contenente trizio radioattivo della centrale nucleare di Fukushima».
Nel museo del massacro è esposta la prima pagina del Tokyo Nichiniche Simbun datata 14 dicembre 1937. Reca una grande fotografia di due ufficiali nipponici appoggiati alle loro katana davanti al palazzo di Sun Yat-sen, alle porte di Nanchino. Accanto al ritratto dei militari, il titolo, a caratteri cubitali: Incredibile record nella gara per decapitare cento persone: Mukai 106-Noda 105. I sottotenenti vanno ai tempi supplementari. Le competizioni nella decapitazione di civili e prigionieri di guerra furono tra i crimini più brutali delle infernali sei settimane cominciate a metà dicembre.
Ma la sezione del museo nella quale i giovani si intrattengono di più è quella sulle «atrocità sessuali», con le video testimonianze delle sopravvissute. Iris Chang – ne Lo stupro di Nanchino – ricorda che è impossibile stabilire quante donne vennero stuprate (le stime vanno da 20mila a 80mila), che molte rimasero incinte e che numerosi furono i casi di suicidio e infanticidio per il «senso di colpa, di vergogna, di disprezzo verso se stesse» delle cinesi violentate.
La morale del partito
Settantasette anni dopo, migliaia di occhi sbarrati scrutano i pannelli e gli schermi in un silenzio irreale nelle ampie sale affollate di giovani. Stanze buie che hanno suddivisioni intitolate “furti”, “incendi e vandalismo”, “atrocità sessuali”, e così via.
Ma c’è spazio anche per le imprese di quegli stranieri che assistettero la popolazione di Nanchino nel soccorso, nell’evacuazione e nella ricostruzione. Primo tra tutti John Rabe (che i profughi soprannominarono «il budda vivente»), il rappresentante della Siemens che, in qualità di funzionario nazista, riuscì a salvare migliaia di persone dalla furia omicida dell’esercito che nel 1940 si sarebbe alleato con il III Reich e con l’Italia fascista.
L’ultima sala è la fossa comune dove furono sepolti almeno 10mila cinesi, con gli scheletri che affiorano al centro e attorno al percorso, in un macabro, soffocante abbraccio ai visitatori sempre più attoniti.
Tra gli studiosi del massacro c’è chi ha parlato di «monumentalizzazione del trauma», quasi che il paese non avesse diritto a ricordare quei fatti. In gran parte sconosciuta in Occidente, la storia delle atrocità delle truppe imperiali nipponiche (che non si esaurisce a Nanchino) nella Cina di Xi Jinping – diversamente da quella di Mao e di Deng – si presta a una didascalica contrapposizione prima-ora: tra le violenze perpetrate contro una Cina debole e divisa e la “Nuova era” che promette di renderla ricca e forte.
Prima dell’uscita – come in tutti i musei della Repubblica popolare cinese – c’è il pannello con la morale: «Essendo stato afflitto dalle sofferenze della guerra, il popolo cinese conosce bene quanto è preziosa la pace, seguirà sempre con determinazione la strada dello sviluppo pacifico, mentre si batterà per il grandioso risveglio della nazione cinese. Ed è pronto ad avanzare mano nella mano con gli altri popoli, per costruire un mondo di pace duratura e prosperità comune».
Eppure gli Stati Uniti stanno dipingendo la Cina come una minaccia per l’Indo-Pacifico e per questo hanno “arruolato” anche il Giappone, che si sta massicciamente riarmando e che parteciperà al summit annuale della Nato del mese prossimo.
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