- Il conflitto potrebbe incistarsi diventando una guerra di attrito . Gli Usa stanno facendo tutto il possibile per far iniziare la trattativa di pace
- Gli altri attori regionali o globali stanno invece decidendo con chi schierarsi. Le precondizioni di entrambe le parti per iniziare a trattare sono ancora molto distanti
- Il conflitto ha assunto per ciò stesso un aspetto da guerra totale che non risparmia i civili e funziona col sistema della terra bruciata. Ecco perché la spinta al negoziato dovrebbe vedere anche l’Italia e l’Europa in prima fila.
I tentativi di dialogo tra Etiopia e Tigrai falliscono prima ancora di cominciare a causa dei bombardamenti di Addis sul campo profughi di Dedebit a pochi chilometri da Sciré. L’occasione era la tregua de facto dei combattimenti e la decisione di ritiro delle forze del Tigray Defense Forces (TDF) dalle regioni di Afar e Amhara per concentrarsi nel proprio territorio.
Pareva un buon momento per avviare esplorazioni in vista di una soluzione negoziata del conflitto. Jeffrey Feltman, l’inviato speciale americano, si è recato ad Addis nei giorni scorsi per discutere tali prospettive con le autorità di Addis. In quell’occasione il governo del premier Abyi Ahmed ha dichiarato che «non intende proseguire l’offensiva nel Tigrai»: un’apertura che è sembrata di buon auspicio. Ora i recenti bombardamenti paiono smentire tale impegno.
Tutto va storto
La spinta diplomatica è giunta anche grazie alla lettera che il leader del Tigray People's Liberation Front (Tplf) Debretsion Gebremichael ha scritto al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres il 19 dicembre scorso, annunciando il ritiro delle sue forze dalle regioni di Afar e Amhara.
«Confidiamo che il nostro coraggioso atto di ritiro rappresenterà un'apertura decisiva per la pace», ha scritto Debretsion chiedendo una «immediata cessazione delle ostilità» seguita da trattative. La situazione della crisi resta tuttavia molto complessa.
Il governo etiope ha reagito affermando che si tratta solo di una “pausa” nelle operazioni militari. Addis ha anche criticato le fake news di massacri e genocidio che i tigrini avrebbero fatto lievitare in questi mesi, anche se le agenzie umanitarie sono unanimi nel denunciare tali atti sia da una parte che dall’altra.
Nonostante l’affaticamento militare di entrambe le parti dovuto alle pesanti perdite subite, l’inizio di colloqui rimane per ora un’ipotesi lontana.
Lo stesso ritiro del Tdf, causato dall’attacco dei droni di Addis dopo che i tigrini erano ormai giunti a 200 km dalla capitale, potrebbe determinare l’incistarsi del conflitto, mediante il trincerarsi dei due fronti e l’inizio di una guerra di attrito (che pare essere già in atto tra tigrini e amhara) o di un congelamento dello scontro.
Gli Stati Uniti stanno facendo tutto il possibile per avviare il negoziato, debolmente sostenuti dall’Europa, mentre le altre potenze (globali o regionali) interessate alla vicenda stanno soltanto valutando da che parte schierarsi in base ai rispettivi interessi. La questione della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) ha sicuramente avvicinato l’Egitto al Tdf così come la disputa frontaliera tra Sudan e Etiopia a proposito dell’area di al Fashaga.
Un anno di guerra
Nell’anno di guerra fin qui trascorso non è parso che il governo di Addis abbia in qualche modo modificato la sua posizione inflessibile. Inoltre le sanzioni Usa, e cioè l’esclusione dalle facilitazioni commerciali dell’African Growth and Opportunity Act, non facilitano le buone disposizioni etiopiche nei confronti della pressione americana.
Già quest’estate il premier etiopico si era rifiutato di incontrare la direttrice dell’Usaid Samantha Power, una delle personalità più in vista dell’amministrazione Biden.
Nei media etiopici si continua a criticare Washington per il fatto di non considerare il Tplf come un gruppo terroristico. Anche i tigrini non sembrano ancora pronti a sedersi al tavolo e cercano di giungerci in posizione di forza, come da reali interlocutori. Il Tplf vuole un riconoscimento politico che Addis non è per ora disposta a concedere trattandoli da ribelli.
L’alleanza etiopico-eritrea della prima fase del conflitto ha reso i tigrini estremamente diffidenti: credono di essere di fronte ad una minaccia esistenziale ed è altamente improbabile che accettino di ridimensionarsi. L’intervento delle forze armate eritree nei primi mesi di guerra rimane una ferita profonda.
Accanto alle prime timide offerte di cessazione momentanea dei combattimenti, i falchi di entrambi i lati hanno affermato di essere pronti a una lotta ad oltranza.
Nella sua lettera all'ONU, Debretsion dichiara orgogliosamente che le Tdf sono "intatte e imbattute sul terreno" e chiede come precondizione sui futuri colloqui il ritiro delle forze etiopiche, eritree e amhara dalle zone del Tigrai che ancora occupano.
Qui sta un dettaglio diabolico: non c’è consenso (né c‘era prima della guerra) sulla frontiera interna tra Tigrai e Amhara. I tigrini considerano di loro pertinenza etnica il distretto di Welkait ed altre aree frontaliere con il Sudan, abitate in prevalenza da amhara.
In questo anno di guerra hanno più volte cercato di attaccare l’area che va fino al confine del Sudan, anche per sbloccare l’isolamento a cui sono sottoposti.
La forte resistenza delle milizie amhara ha fatto sì che, per scendere verso Addis, le Tdf siano dovute passare dall’altra parte, cioè l’Afar. Si tratta di vecchi contenziosi che avevano provocato molte polemiche nell’Etiopia federale, con il ridisegno dei confini interni da parte del governo Melles Zenawi, ritracciati in seguito dal governo Abiy Ahmed.
Il Tplf chiede in aggiunta una no-fly zone anti-droni sul Tigrai che rappresenta l’unico reale vantaggio strategico di Addis su Maccallé. Infine una richiesta urgente è l’apertura di passaggi e ponti aerei umanitari per consegnare cibo e aiuti che mancano crudelmente al Tigrai fin dall’inizio della guerra.
Durante il loro ritiro dalle zone previamente occupate in questi mesi, le Tdf hanno portato via tutto ciò che potevano: un bottino che è servito per rifarsi del saccheggio subito nei primi mesi guerra.
Il conflitto ha assunto per ciò stesso un aspetto da guerra totale che non risparmia i civili e funziona col sistema della terra bruciata. Ecco perché la spinta al negoziato dovrebbe vedere anche l’Italia e l’Europa in prima fila.
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