- L’errore dell’era Merkel è stato credere che per competere con gli Stati Uniti si sarebbe dovuto formare un mercato europeo di pari popolazione, se non maggiore. Così si è proceduto all’allargamento di ben dieci paesi in un colpo solo sotto la presidenza dell’Unione di Romano Prodi.
- La via maestra per tornare a contare nel mondo per l’Unione è imboccare la via agile e snella dei Paesi Bassi del XVI secolo, le piccole Province Unite, mercantili, borghesi e libertarie, che si opposero con successo alla dominazione imperiale degli Asburgo di Spagna.
- Continuare sulla via del Trattato del Quirinale siglato tra Francia e Italia che è essenzialmente un bazooka in mano a Draghi e Macron per sostenere il cancelliere socialdemocratico, Olaf Scholz.
L’Europa deve diventare più piccola per contare di più. Deve tornare al nocciolo duro carolingio per uscire dall’impasse dei veti incrociati che oggi la paralizzano. Un paradosso solo apparente. Vediamo perché analizzando in sintesi i due principali errori europei dell’era Angela Merkel, iniziata nel 2005 e finita a fine 2021.
L’egemonia tedesca
Il primo errore strategico della cancelliera tedesca venuta dall’est è stato quello di aver abbandonato la linea renana di Helmut Kohl, secondo cui la Germania conta in Europa in quanto conta l’Europa stessa, per imboccare invece la via dell’egemonia tedesca dell’Unione. Merkel non ha pensato a irrobustire la nave comune, non ha capito che la grandezza della Germania sarebbe derivata dalla forza dell’Europa.
La cancelliera si è sì impossessata egemonicamente della zattera europea, ma non l’ha aiutata a trasformarsi in transatlantico. E ora la Germania governa una zattera tra i marosi. Il processo di integrazione si è infatti fermato nei fatti al Trattato di Amsterdam del 1997; i successivi Trattati di Nizza e di Lisbona hanno solo gestito le crisi, raccolto i cocci e le bocciature via referendum della Costituzione europea. Troppo poco, troppo tardi.
Sempre più paesi
Il secondo errore dell’era Merkel è stato credere che per competere con gli Stati Uniti si sarebbe dovuto formare un mercato unico europeo di pari popolazione, se non addirittura maggiore. Da questa errata considerazione quantitativa si è proceduto all’allargamento di ben dieci paesi in un colpo solo sotto la presidenza dell’Unione di Romano Prodi.
Un errore di prospettiva che non ha considerato che la potenza degli Stati Uniti è rappresentata sì dalle dimensioni del suo mercato interno, ma soprattutto dalla sua egemonia economico, politico e militare globale, in particolare nel quadrante Indo-Pacifico.
Gli inglesi hanno sostenuto l’allargamento a est dell’Unione europea surrettiziamente per allargare, a sua volta, i confini della Nato e per annacquare il progetto di unità europea che a 28 paesi si sarebbe inevitabilmente bloccato. Una volta raggiunto lo scopo di sabotare dall’interno il progetto federale di Bruxelles allargandolo eccessivamente ad oriente, gli inglesi hanno lasciato l’Unione al suo destino. Mission accomplished.
Tornare indietro
Cosa deve fare, dunque l’Unione per riparare ai due errori strategici di cui sopra? Continuare sulla via del Trattato del Quirinale siglato tra Francia e Italia che è essenzialmente un bazooka in mano a Mario Draghi e Emmanuel Macron per sostenere il cancelliere socialdemocratico, Olaf Scholz, contro le velleità di rinascita di politiche ordo-liberiste di austerità sostenute dai liberali tedeschi di Christian Lindner.
La via maestra per tornare a contare nel mondo per l’Unione è imboccare la via agile e snella dei Paesi Bassi del XVI secolo, le piccole Province unite, mercantili, borghesi e libertarie, che si opposero con successo alla dominazione imperiale degli Asburgo di Spagna. Imboccare cioè la via delle cooperazioni rafforzate tra i sei paesi fondatori dell’Unione sulla scia di quanto espresso da Macron nel discorso sul futuro della Ue alla Sorbona di Parigi il 26 settembre 2017 dove prevedeva un ministro delle Finanze e un bilancio comune dell’eurozona, la mutualizzazione dei debiti con l’emissione di eurobond, il completamento dell’unione bancaria, la convergenza fiscale per ridurre la concorrenza tributaria europea, il salario minimo europeo, un parlamento europeo con liste transnazionali.
L’allora cancelliera tedesca, Angela Merkel, aspettò otto lunghi mesi per rispondere a quel discorso di facendolo, nei fatti, naufragare tra le tante proposte lasciate nel cassetto.
Autonomia europea
Ora si tratta di riprendere le fila di quel progetto e rilanciarlo in una prospettiva che non guardi al numero di abitanti del mercato unico europeo come chiave di volta della costruzione europea, ma sulla capacità, agile e snella, di essere presenti in quadranti strategici come l’Indo-Pacifico con una autonomia europea strategica in campo politico, militare ed economico.
Consapevoli che con la presidenza Trump e il suo slogan “America First” i rapporti transatlantici hanno toccato il punto più basso ma che con Biden poco è cambiato e poco cambierà. Ricordando la frase profetica della Merkel al G7 a Taormina nel 2017 quando
di fronte agli atteggiamenti di sfida di Trump la cancelliera disse: «I tempi in cui potevamo fare affidamento sugli altri sono finiti». Cioè ormai è impossibile fidarsi degli Stati Uniti. Ma quello che nessuno poteva immaginare è che la frase non si sarebbe riferita solo all’amministrazione Trump ma più in generale agli Stati Uniti anche a guida democratica.
La verità amara di cui Bruxelles deve prendere atto è che il tanto atteso Reset di Joe Biden nei rapporti transatlantici tra Europa e Stati Uniti non c’è stato né ci sarà. L’America first rimane in sottofondo come segno ingombrante di continuità con la politica unilaterale dell’ex presidente repubblicano, Donald Trump. Ecco perché l’Europa si deve “rimpicciolire” al nocciolo duro per poter contare di nuovo nei quadranti strategici del mondo.
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