Un conteggio che continua a salire. Sono ormai decine i corpi recuperati da alcune fosse comuni scoperte nell’ultima settimana a nord est e a sud est della Libia, in particolare nei pressi di Jikharra e di Kufra. I primi ritrovamenti, resi pubblici dal dipartimento di sicurezza del distretto di Al Wahat e dalla divisione locale della Mezzaluna Rossa, sono avvenuti in una fattoria vicino a Jikharra, circa 400 chilometri a sud di Benghazi. Quattordici corpi sono stati rivenuti nel terreno della proprietà e altri cinque in un luogo poco distante.

Nel comunicato il dipartimento di sicurezza conferma il sospetto che le morti siano legate alle attività di «traffico e migrazione illegale» nella zona, facendo riferimento in particolare a «una nota rete di contrabbando».

«C’era una banda», ha spiegato la procura libica, «i cui membri hanno deliberatamente privato i migranti della loro libertà, li hanno torturati e li hanno sottoposti a trattamenti crudeli, umilianti e disumani». Si attendono per il momento i risultati delle autopsie per stabilire con precisione le cause delle morti.

Secondo l’associazione Al-Abreen, che fornisce assistenza ai migranti nelle zone a sud e a est della Libia, alcune persone sarebbero state uccise con colpi d’arma da fuoco prima di essere gettate nelle fosse.

Altri 30 corpi sono stati rinvenuti pochi giorni dopo, il 9 febbraio, più a nord, a Kufra, in seguito a un raid in un centro utilizzato per la tratta di esseri umani. Nella stessa occasione, sono state liberate dal centro 76 persone. Tre gli arresti, in attesa dei risultati delle prime indagini. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti le persone uccise e sepolte nella proprietà dovrebbero essere almeno 70.

Il ritrovamento di fosse comuni non è un caso isolato. Lo scorso anno, sono stati trovati almeno 65 corpi di migranti solo nella regione di Shuayrif, a 350 chilometri a sud di Tripoli. Anche detenzioni, torture e violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno per le persone di origine sub sahariana che passano per la Libia nel tentativo di raggiungere le coste europee. Soltanto il mese scorso sono stati liberati oltre 260 migranti che erano stati «trattenuti da una banda di trafficanti in condizioni umane e sanitarie estremamente precarie», sempre nella regione di Al Wahat.

È del 7 febbraio il caso – uno tra tanti – di un giovane rifugiato di nazionalità camerunense ucciso mentre tornava dal supermercato con la sua ragazza da due cittadini libici armati di Kalashnikov, appartenenti alla milizia di Ali Madar. A denunciare l’accaduto è l’associazione Refugees in Libya, che aggiunge: «La cosa più disgustosa è che il ragazzo, una volta portato in ospedale non ha ricevuto alcuna cura, fino a quando è morto dissanguato».

Si tratta di un sistema ormai consolidato di violenze e impunità: «quasi 900 mila persone in Libia hanno bisogno urgente di aiuti umanitari», denuncia l’associazione «metà sono sfollati interni, e l’altra metà migranti, rifugiati e richiedenti asilo provenienti principalmente dall’Africa subsahariana e dal Medio Oriente».

La maggioranza di questi eventi violenti, commenta David Yambio, presidente di Refugees in Libya, possono essere ricondotti ad Almasri - il capo della polizia giudiziaria libica accusato di crimini di guerra contro l’umanità dalla Corte penale Internazionale, rimandato il Libia dall’Italia - o a suoi affiliati. Questo vale anche per il caso del 7 febbraio: «Se scaviamo nei dettagli, arriveremo sulle tracce di Almasri, che è ben radicato e controlla tutte le regioni di Zawiya».

Respingimenti e naufragi

Sempre il 6 febbraio, la Mezzaluna Rossa libica ha reso pubbliche le conseguenze di un recente naufragio, a cui hanno assistito alcuni volontari. Il personale ha recuperato i corpi di 10 migranti, dopo che la loro imbarcazione era affondata vicino alla città di Zawiya, situata a circa 40 chilometri a est di Tripoli. Sulle coste libiche restano frequentissimi i naufragi e i respingimenti illegali ad opera della cosiddetta guardia costiera libica, finanziata dal Memorandum Italia-Libia e costituita in massima parte da milizie locali.

Secondo il progetto Missing Migrants dell’Oim, almeno 3.100 persone sono morte o scomparse nel Mediterraneo nel 2023 – mentre i dati 2024 sono ancora in aggiornamento. Facendo ancora una volta del Mediterraneo una delle rotte migratorie più mortali al mondo.

«Gli episodi osservati di recente a Jikharra e Zawiya», ha dichiarato a Domani un rappresentante della Mezzaluna Rossa libica, i cui volontari erano presenti durante tutti gli episodi dell’ultima settimana, «rivelano le complesse sfide affrontate dai migranti subsahariani, che sopportano notevoli difficoltà nella loro ricerca di salvezza e opportunità». Esistono, secondo l’organizzazione «lacune sostanziali, in particolare per quanto riguarda l'accesso ai servizi essenziali e alla protezione».

«In questa situazione», così ancora la Mezzaluna Rossa libica, «sottolineiamo nuovamente la necessità di un impegno collettivo per sostenere i diritti e la dignità delle persone in movimento, non solo in Libia come Paese di transito, ma anche lungo le rotte migratorie e in tutti i Paesi di destinazione. È indispensabile promuovere un ambiente in cui la sicurezza e il benessere delle persone in movimento siano una priorità».

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