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Questo è un nuovo numero di Afriche, la newsletter decolonizzata di Domani che racconta l’Africa al plurale, a cura di Luca Attanasio e in arrivo ogni martedì pomeriggio. Per iscriverti clicca qui.
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Lettrici e lettori di Afriche, in questo numero un articolo sulle nuove tensioni in Libia che rischia di sprofondare nuovamente nella guerra civile dopo un periodo che aveva acceso flebili speranze; a seguire un focus su “I padroni della terra”, il rapporto di Focsiv sul nuovo feudalesimo, il cosiddetto land-grabbing in atto nel mondo e, chiaramente, anche in Africa.
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Apre a Roma il laboratorio Kene, da un’idea di Mohamed Keita, l’artista fotografo rifugiato che è tornato in Africa per aprire laboratori fotografici per street children. La sua storia ha ispirato la prima parte del mio Il Bagaglio, il testo dedicato ai minori stranieri non accompagnati. Per finire, le news dal continente. Buona lettura.
Le tensioni in una Libia che qualche mese fa si pensava se non vicina, almeno in iniziale marcia verso un accordo di unità dopo oltre un decennio di guerra, montano di giorno in giorno. La sera di venerdì 1 luglio un gruppo di manifestanti ha preso d’assalto la sede della Camera dei rappresentanti nella città orientale di Tobruk, saccheggiando gli uffici e dando alle fiamme intere sezioni dell’edificio. Il giorno dopo, dimostranti si sono radunati a Tripoli, Al Bayda, Misurata e in altre città, e hanno bloccato le strade, incendiato pneumatici e inscenato manifestazioni che hanno fatto salire il livello di guardia. La popolazione, frustrata da anni di caos e divisioni, ha chiesto la rimozione dell’attuale classe politica e lo svolgimento entro l’anno di quelle elezioni che si sarebbero dovute tenere lo scorso dicembre e che al momento sembrano più lontane che mai.
Gli ultimi colloqui tenutisi giovedì 30 giugno a Ginevra tra i presidenti delle due camere rivali – Aguila Saleh, il leader del parlamento di Tobruk, e Khaled el-Meshri, presidente dell’Alto consiglio di Stato con sede a Tripoli – non sono riusciti a risolvere le differenze chiave attorno a una bozza di quadro costituzionale per le elezioni. Un fallimento erano stati anche i negoziati svoltisi al Cairo dieci giorni prima.
Alla base delle turbolenze politiche e le manifestazioni di rabbia della popolazione, ci sono le disastrose condizioni economiche in cui la Libia è sprofondata, con il paradosso dei prezzi del carburante, di uno dei paesi maggiormente produttori, schizzati alle stelle e le susseguenti continue interruzioni di corrente. Alla pesante situazione contribuisce anche la decisione di leader tribali di chiudere molti impianti petroliferi, tra cui il più grande giacimento del paese. I prezzi del pane e dei beni di prima necessità sono aumentati, e le proteste di un popolo che non ha mai conosciuto povertà estrema si scagliano giustamente sulla endemica incapacità delle due fazioni di trovare un accordo politico.
Secondo quanto riportano i media libici, i criteri per la candidatura presidenziale sono stati il punto controverso attorno al quale si sono incagliati i colloqui. Il Consiglio con sede a Tripoli, in un estremo tentativo di precludere ogni velleità al comandante Khalifa Haftar, le cui forze sono fedeli all’amministrazione orientale, insiste nel vietare ai militari la candidatura alla massima carica del paese. Haftar, infatti, aveva annunciato la sua candidatura alle elezioni presidenziali previste per lo scorso dicembre e mai tenutesi, e molti osservatori ritengono che voglia riprovarci in un’eventuale ricorso effettivo alle urne.
«Quello che si sta cercando di fare con i colloqui», ha dichiarato Rory Challands inviato di Al Jazeera, «è riportare il paese a una versione migliore e più stabile di quella del 21 dicembre, quando le elezioni presidenziali e parlamentari sono state vietate all’ultimo minuto». Ma il secondo netto fallimento nel giro di una decina di giorni complica ulteriormente gli sforzi internazionali per trovare una via d’uscita dal caos, e il timore di un ritorno a un conflitto aperto aumentano di giorno in giorno.
A metà giugno pesanti scambi di colpi d’arma da fuoco ed esplosioni sono stati uditi in diversi quartieri di Tripoli, e civili in fuga da aree molto popolose sono state diffuse dai media locali. Gli intensi combattimenti hanno coinvolto due influenti milizie della Libia occidentale: la Brigata Nawasi – una milizia fedele al politico Fathi Bashagha – e la Forza di sostegno alla stabilità, che sostiene il premier ad interim Abdul Hamid Dbeibah.
Sullo sfondo, l’ormai annosa situazione di migliaia di migranti forzati rinchiusi nei noti lager libici le cui sorti, anche a causa di questa situazione di grave instabilità e di una serie di accordi stabiliti dal nostro governo e ancora vigenti, preoccupano molto.
In questo quadro, dalla Libia arriva una drammatica notizia che aggiunge orrore al già pesante contesto: sono stati rinvenuti i corpi di venti persone che si erano perse nel deserto libico e sono morte con tutta probabilità per sete. I cadaveri sono stati scoperti da un camionista che stava attraversando il deserto e sono stati recuperati a circa 320 chilometri a sud-ovest di Kufra, a 120 km dal confine con il Ciad.
I padroni della Terra, il rapporto Focsiv
È stato presentato a Roma lo scorso 28 giugno “I padroni della Terra. Il V° Rapporto sull’accaparramento della terra: conseguenze sui diritti umani, ambiente e migrazioni”, ideato e redatto da Focsiv, con il patrocinio di GreenAccord e il contributo del progetto Volti delle migrazioni co-finanziato dall’Unione europea.
Il rapporto fa luce su uno dei fenomeni più devastanti dei nostri tempi, il cosiddetto “land-grabbing”. Dal 2008, il termine “land-grabbing” (letteralmente, accaparramento di terre) ha acquisito triste fama in tutto il mondo. Con le due parole si fa riferimento alle acquisizioni di terreni su larga scala da parte di investitori privati, pubblici e di aziende agroalimentari che acquistano terreni agricoli o li affittano a lungo termine per ricavarne prodotti agricoli di base.Questi investitori internazionali, così come i venditori pubblici, semi-pubblici o privati, spesso operano in aree grigie dal punto di vista legale e in una terra di nessuno tra i diritti fondiari tradizionali e le moderne forme di proprietà. In molti casi di land-grabbing, si potrebbe parlare di una specie di ritorno al feudalesimo su larga scala in cui terre, contadini, acque e risorse finiscono nelle mani di investitori. A pieno titolo si parla di vera e propria instaurazione di nuovi rapporti coloniali imposti da attori internazionali.
Anche l’edizione 2022 del rapporto è stata dedicata ai difensori dei diritti umani uccisi nel corso del 2021 per essersi opposti alla devastazione e all’inquinamento su grande scala di foreste, terra e acqua e per aver lottato con ogni mezzo in difesa del pianeta e dei diritti: 358 in 35 paesi diversi.
Dal Rapporto emergono dati inquietanti, specie per tempi in cui si parla di transizione ecologica e green revolution, mentre aumentano vistosamente i fenomeni di land-grabbing, di sfruttamento intensivo di terre e individui e di spregio dei diritti delle comunità locali, deportate o deprivate delle proprie ricchezze. Secondo gli ultimi rilevamenti di marzo della banca dati di Land Matrix, il sito che raccoglie informazioni sui contratti di cessione e affitto di grandi estensioni di terra, i milioni di ettari di terre “accaparrate” negli ultimi venti anni sono 91,7. Il fenomeno si concentra in alcuni paesi: il più coinvolto è il Perù con 16 milioni di ettari, a questo seguono a distanza il Brasile e l’Argentina, l’Indonesia e la Papua Nuova Guinea e l’Ucraina. Per il continente africano, le terre più “accaparrate” sono in Sud Sudan, Mozambico, Liberia e Madagascar.
I principali paesi investitori sono soprattutto occidentali: Canada (quasi 11 milioni di ettari), Gran Bretagna, Stati Uniti (quasi 9 milioni di ettari), Svizzera e Giappone.
Al fenomeno del land-grabbing, si legano, come ovvio, conflitti e scontri nelle zone più colpite. Nel caso dell’Africa, una ricerca condotta da Rights and Resources Institute su 37 casi di studio provenienti dall’Africa occidentale, orientale e meridionale, mette in luce che il 63 per cento delle dispute sulle terre che in molti casi hanno condotto a scontri, sono iniziate quando le comunità sono state costrette a lasciare le loro terre.
Apre a Roma Kene, il laboratorio fotografico di Mohamed Keita
Apre a Roma, in Via Giusti 24, nel cuore del quartiere Esquilino, Kene, il laboratorio fotografico nato da un’idea dell’artista rifugiato Mohamed Keita. Kene è un progetto unico nel suo genere che ha come fonte d’ispirazione la vicenda di Mohamed Keita, che, poco più che bambino, ha dovuto lasciare all’improvviso il suo paese d’origine, la Costa d’Avorio, travolto dalla guerra civile, e intraprendere un viaggio a soli 14 anni che, 8mila km e tre anni e mezzo dopo, lo ha condotto in Italia.
Qui, diciassettenne, scopre una vera e propria vocazione per la fotografia e, in breve, diviene un professionista affermato grazie a uno stile che mescola sensibilità ad arte. Nel corso della sua carriera, Mohamed ha sempre manifestato la volontà di ripercorrere a ritroso il suo viaggio e «consegnare all’Africa quanto ho imparato in Europa».
Comincia così un viaggio che lo riporta in Mali con l’obiettivo di trasmettere ad altri ragazzi la passione per la fotografia e dare loro una chance di riscatto, una possibilità di promozione sociale. Un viaggio di restituzione, un inno alla fotografia e al suo magico potere rigenerante. È così che è nato “Kene”, che in lingua mandinga significa “spazio” nel quartiere di Kanadjiguila, a Bamako. La Fondazione Pianoterra ha sposato sin dall’inizio il progetto, sostenendo Mohamed Keita nell’elaborazione della sua idea progettuale e nella realizzazione operativa del primo laboratorio, tenutosi tra fine agosto e i primi di ottobre del 2017.
Il suo progetto, ora, sbarca in Italia con la volontà di costruire un ponte “tibetano” tra l’esperienza dello studio fotografico a Bamako, e Roma. KENE (Roma) è un progetto che rilancerà l’esperienza straordinaria della scuola di Bamako. I laboratori, che saranno coordinati da Mohamed Keita, vedranno per il primo anno la partecipazione di 6-8 giovani che vivono in condizioni di marginalità sociale e avranno al centro la fotografia. L’esperienza di migrazione e di lavoro di Mohamed Keita, ha ispirato la prima sezione del mio testo Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati.
News dal continente:
- ALGERIA
Come segnala un rapporto di esperti internazionali pubblicato dalla Cambridge University Press, l’Algeria si è classificata al primo posto tra i paesi arabi e africani per l’anno 2022 in termini di raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg) delle Nazioni unite. Il risultato è un segnale molto positivo e pone il paese nordafricano al 64° posto nel mondo. Dai dati stilati dal Sustainable Development Solutions Network, si evince inoltre che l’Algeria ha buone chance di raggiungere nei tempi l’Sdg4 (istruzione), l’Sdg12 (modelli di consumo e produzione sostenibili) e l’Sdg 17 (partenariati per il raggiungimento degli Sdg), e che sta compiendo notevoli progressi sull’Sdg9 (industria, innovazione e infrastrutture), Sdg13 (azione per il clima), Sdg15 (vita sulla terra) e Sdg16 (pace, giustizia e istituzioni forti).
- NIGERIA
La Germania e la Nigeria hanno firmato un accordo che apre la strada alla restituzione di centinaia di manufatti noti come Bronzi del Benin, saccheggiati e portati via dall’Africa più di 120 anni fa. Il governo nigeriano spera che l’intesa spinga altri paesi coloniali europei a seguire l’esempio. Nel 1897, una spedizione coloniale britannica saccheggiò una grande quantità di tesori dal palazzo reale del Regno del Benin, nell’attuale Nigeria sudoccidentale, tra cui numerosi bassorilievi e sculture. Centinaia di esemplari sono stati venduti a collezioni tra cui quelle del Museo Etnologico di Berlino.
- SUDAN
Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza a Khartoum lo scorso fine settimana, dopo che nove persone sono state uccise durante le manifestazioni contro i generali al potere nel paese. Un video di AP mostra un veicolo blindato della polizia che spara gas lacrimogeni verso i manifestanti, che usano scudi e lanciano pietre come rappresaglia contro i veicoli. I manifestanti hanno in seguito inscenato un sit-in all’esterno dell’ospedale di al-Jawda, dove i feriti sono ancora in cura. La comunità internazionale condanna le violenze nella nazione dell’Africa orientale, scossa da proteste quasi settimanali da quando un colpo di stato del 25 ottobre ha messo a repentaglio la sua fragile transizione verso la democrazia. Ma i colloqui organizzati per favorire una riconciliazione segnano il passo e si teme per un ritorno alla violenza istituzionalizzata, dopo l’iniziale successo del governo di transizione instaurato nel 2019 che, per la prima volta nella storia del Sudan, prevedeva la partecipazione di civili.
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