L’ultimo rifugio dei profughi della Striscia è diventato il prossimo obiettivo di Israele. Le opzioni della Casa Bianca dopo l’ennesimo rifiuto di Netanyahu di negoziare
L’ultimo rifugio dei profughi a Gaza è diventato il prossimo obiettivo di Israele, mentre una delegazione di Hamas è al Cairo per discutere di ulteriori proposte per arrivare a un cessate il fuoco. È una corsa contro il tempo mentre le forze israeliane hanno bombardato giovedì le aree della città di Rafah, al confine meridionale, dove si sta rifugiando più della metà della popolazione di Gaza, il giorno dopo che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha respinto una proposta per porre fine alla guerra nell’enclave palestinese. Le Nazioni unite avvertono di un «incubo umanitario». Netanyahu ha detto mercoledì che le condizioni proposte da Hamas per un cessate il fuoco, che implicherebbero anche il rilascio degli ostaggi tenuti dal gruppo militante palestinese, sono «deliranti», e ha promesso di continuare a combattere, dicendo che la vittoria è a portata di mano e a pochi mesi di distanza. Il rifiuto di Tel Aviv fa seguito a un’intensa attività diplomatica volta a porre fine al conflitto prima del minacciato attacco israeliano a Rafah, che ora ospita oltre un milione di persone, molte delle quali in tende improvvisate e prive di cibo e medicine. Secondo il quotidiano israeliano Hareetz sarebbero 1,7 milioni i palestinesi sfuggiti ai bombardamenti israeliani di Gaza ma che non avrebbero più una casa dove ritornare perché danneggiata o distrutta. Nel frattempo, il Pentagono ha affermato di aver ucciso il leader di un gruppo di miliziani appoggiati dall’Iran a Baghdad in un attacco con droni, affermando che era stato lui a dirigere gli attacchi che hanno ucciso tre soldati americani il mese scorso nella base Usa detta Torre 22 in Giordania il cui re sarà ricevuto a Washington da Joe Biden lunedì.
Gelo tra Usa e Israele
Questi eventi si collocano nel quadro che vede il segretario di Stato americano Antony Blinken lasciare il Medio Oriente con le divisioni pubbliche tra Stati Uniti e Israele al livello forse peggiore da quando è iniziata la guerra di Israele contro Hamas a Gaza in ottobre. «Gli attacchi di Hamas del 7 ottobre scorso non danno a Israele il permesso di disumanizzare gli altri», ha affermato il segretario di Stato americano. Blinken ha aggiunto di aver messo in guardia Benjamin Netanyahu contro qualsiasi azione che «possa esacerbare le tensioni», e ha invitato Israele a prendere in considerazione «innanzitutto» i civili in caso di un’operazione a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Parole al vento? Resta il fatto che concludendo un viaggio in Medio Oriente in quattro nazioni – il quinto nella regione dallo scoppio del conflitto – Blinken è tornato a Washington dopo aver ricevuto un sonoro schiaffo virtuale dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che aveva detto che la guerra sarebbe continuata finché Israele non fosse stato completamente vittorioso e ha respinto la risposta di Hamas alla proposta di un piano di cessate il fuoco.
Le relazioni tra Israele e il suo principale alleato internazionale, gli Stati Uniti, sono tese da mesi, ma il pubblico rifiuto da parte di Netanyahu di un piano di pace che gli Stati Uniti ritenevano valido, almeno come punto di partenza per ulteriori negoziati, ha evidenziato il divario tra i due alleati. Eppure Blinken e altri funzionari statunitensi hanno affermato di rimanere ottimisti sul fatto che si possano fare progressi sui loro obiettivi principali: migliorare le condizioni umanitarie dei civili palestinesi, garantire il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas, preparare una Gaza post-conflitto e prevenire la diffusione della guerra. Possibile?
Cosa farà Biden?
Cosa succederà dopo l’ennesima rottura fra Biden e Netanyahu, che pare questa volta più seria da ricomporre tra i due storici alleati? La Casa Bianca ha due opzioni sul piatto: potrebbe decidere di abbandonare pubblicamente il governo Netanyahu e sostenere le forze di opposizione per favorire un cambio di governo più dialogante con l’Anp oppure potrebbe prevalere la considerazione strategica che Netanyahu come qualsiasi premier israeliano gode di un vantaggio competitivo nella trattativa, nel senso che gli interessi di Israele e quelli degli Usa nella regione coincidono, in funzione di contenimento dell’influenza iraniana, come mostrano i vari strike antiraniani nell’area. In questa fase resta difficile fare previsioni tenendo conto che oltre alla trattativa tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco a Gaza e uno scambio di ostaggi, questi giorni sono cruciali anche per «l’altra trattativa», voluta dagli Usa e mirata a evitare un’escalation con Hezbollah che coinvolga tutto il Libano. Il confine tra Beirut e lo Stato ebraico, la linea blu stabilita dall’Onu nel 2000 per dividere Israele e il Libano, è stato teatro di ripetuti colpi tra il partito sciita alleato di Hamas e l’esercito israeliano.
Elezioni e arabo-americani
Ma c’è di più. Secondo Axios alti funzionari della Casa Bianca hanno incontrato i leader arabo-americani nel Michigan, nel tentativo di evitare il disastro elettorale causato dalle politiche del presidente Biden nei confronti di Israele. Il Michigan ospita la più grande popolazione arabo-americana del paese. La vittoria di misura (1 per cento) di Biden nel 2020 in questo stato significa che ha poco spazio per errori. Il presidente americano è preoccupato di come Israele riuscirà a fare un piano realistico sul dopo guerra a Gaza con questo atteggiamento intransigente. Non a caso l’ultimo editoriale di Thomas Friedman sul New York Times si intitola: “Il valore dell’ascolto”, riferendosi alla necessità di ritrovare la via del dialogo. Altrimenti Israele resterà un paese sempre in guerra.
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