Per dire della sagacia di Henry Kissinger – morto all’età di 100 anni – basta un aneddoto non così conosciuto ma niente affatto minore. Inviato dal Los Angeles Times in Italia per i Mondiali di calcio del 1990, sport di cui era appassionatissimo, scrisse un pezzo memorabile.
Il fulcro: «Guardando le partite mi rendo conto che in Europa stanno risorgendo con più vigore i nazionalismi del resto mai scomparsi nemmeno nel Ventesimo secolo».
Un pronostico controcorrente se era appena caduto il Muro di Berlino, finita la Guerra fredda, George Bush padre proclamava l'inizio di un nuovo ordine mondiale di pace e prosperità e il politologo Francis Fukuyama stava elaborando la sua teoria sulla fine della storia.
Il tempo si sarebbe peritato di dare ragione a Kissinger, che certo non difettava di intelligenza, perspicacia e arguzia. Utilizzate anche per avvalorare alcuni suoi indubbi meriti e cercare di nascondere, tra le pieghe di una biografia monumentale per longevità e ruoli ricoperti, nefandezze imperdonabili.
L'anno cartina di tornasole della sua ambivalenza è il 1973 quando ottiene il premio Nobel per la pace grazie al lavoro diplomatico di distensione con la Cina e soprattutto le trattative per la fine della guerra in Vietnam (dove pure ha approvato alcuni dei bombardamenti più devastanti) ma anche l'anno del colpo di Stato in Cile, in cui la sua longa manus fu decisiva e di cui firmò in qualche modo la paternità con una famosa dichiarazione: «Non vedo alcuna ragione per cui ad un paese dovrebbe essere permesso di diventare marxista soltanto perché il suo popolo è irresponsabile. La questione è troppo importante perché i cileni possano essere lasciati a decidere la soli».
E la sentenza inappellabile: «Non permetteremo che il Cile finisca nel canale di scolo». Era la sconfessione palese di un fondamentale principio democratico, la rivendicazione di uno jus degli Stati Uniti sull'intero continente, considerato il “giardino di casa”.
Perfezionato dal varo dell' Operazione Condor, il coordinamento tra i servizi segreti di tutti i paesi del Sudamerica «per combattere il terrorismo e le forze eversive di sinistra». Strumento che sarebbe risultato decisivo per altri golpe come quello in Argentina e per la pianificazione di omicidi mirati.
Kissinger sostenne sempre di non essere a conoscenza dei piani di Condor salvo essere clamorosamente smentito quando furono desecretati gli atti di quel periodo e vennero alla luce le sue istruzioni scritte.
Repubblicano e anticomunista per formazione, ma al servizio anche di presidenti democratici (Kennedy, Johnson) non stupisce che la sua tesi di dottorato ad Harvard fosse su Metternich anche se assomigliava assai più a un altro protagonista di quel Congresso di Vienna che doveva regolare l'equilibrio dei poteri in Europa, il francese Talleyrand passato con noncuranza dall'Ancien Régime a Napoleone per tornare a servire il re giustificandosi così: «Non sono io che cambio ma i tempi».
Come lui Kissinger non ha mai smesso di sussurrare ai potenti, qualunque carica avesse, e scegliendo come stella polare gli interessi dello stato piuttosto che l'etica.
Una spregiudicatezza che lo ha guidato anche in altre scelte controverse come l'appoggio all'Indonesia anticomunista nella conquista di Timor Est, o gli occhi chiusi davanti alle atrocità dell'alleato Pakistan in Bangladesh. Perfetta incarnazione della massima di Blaise Pascal: «Non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte, abbiamo fatto che ciò che è forte fosse giusto».
Kissinger ha segnato più epoche. Ma il prolungato esercizio di potere ne definisce l'importanza. L'importanza non è sinonimo di grandezza.
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