C’è chi pensa che il nuovo presidente si prepari a inondare gli Stati Uniti di ordini esecutivi, per ribaltare i provvedimenti di Trump. Con un paese diviso, le cose non saranno così semplici
- La prima intenzione del neo presidente Joe Biden – come lui stesso ha dichiarato – sarà di “curare e unire” il paese che eredita particolarmente diviso. Per questo non bastano gli ordini esecutivi per ribaltare i provvedimenti di Trump.
- La caratteristica di Biden è sempre stata la mediazione. In questo è molto diverso da Nancy Pelosi, che è molto meno propensa a trattare con i repubblicani.
- Rimane certo che Biden sceglierà la sua squadra secondo criteri propri e sarà molto difficile per chiunque influenzarlo, inclusi i maggiorenti democratici. Per riuscire ad avere il sostegno di alcuni avversari al senato, potrebbe chiamare alcuni repubblicani moderati nel governo.
Numerosi media europei sostengono che il presidente eletto degli Stati Uniti Joe Biden appena insediato alla Casa Bianca dopo il 20 gennaio ha intenzione di inondare il paese con una serie di ordini esecutivi per ribaltare i provvedimenti di Donald Trump. Ma le cose non saranno così semplici. La prima intenzione del neo presidente –come lui stesso ha dichiarato – sarà di “curare e unire” il paese che eredita particolarmente diviso.
Una buona parte dell’establishment repubblicano di marca trumpiana resta al suo posto, anzi aumenta di peso come si può vedere dagli eletti al Congresso e al Senato. Piace agli europei la “squad” della deputata rieletta Alexandria Ocasio Cortez (detta AOC) e delle sue colleghe, ma dall’altro lato c’è ormai una squad opposta, con eletti che credono al complottismo di Qanon, il supercomplottismo di destra. Dall’epoca dei Tea Parties la politica americana si è polarizzata.
Molti repubblicani continueranno a pensare che queste elezioni sono state rubate dai democratici. Il fatto di non mostrare prove rafforza il senso di congiura che anima tale convinzione. Quando c’è odio non serve portare prove a carico: più è perfetta la cospirazione e meno ci possono essere indizi.
Unire e curare
Per questo Biden, un politico dalla enorme esperienza, non fa che ripetere che bisogna «heal the nation, unite the nation»: unire e curare. Aprendo la serata del discorso della vittoria, la stessa vicepresidente eletta Kamala Harris ha presentato Biden come «a uniter and a healer».
Biden ha poi citato Qoelet nella Bibbia: «Tutto ha il suo momento e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo…ora è il tempo per curare». Le sue parole d’ordine sono state: decoro, equità, imparzialità, scienza e speranza. Potrà il neo presidente riuscire a unire un paese diviso?
Mediare, prima di tutto
Joe Biden ha una lunga carriera alle spalle: più di 40 anni tra Delaware e Washington, dove in Senato è stato ampiamente un protagonista. La lista delle legislazioni che lo hanno visto in prima linea è lunghissima.
La sua caratteristica è sempre stata la mediazione: secondo Biden si può sempre trovare un accordo. In questo è molto diverso da Nancy Pelosi, la speaker del Congresso quasi coetanea e californiana, molto meno propensa a perdersi in lunghe trattative con i repubblicani.
È rimasta famosa la scena del 2008 quando Henri Paulson, ministro del tesoro di Bush jr ed ex presidente di Goldman Sachs, si mise letteralmente in ginocchio davanti a lei implorandola “di non far saltare l’accordo” sulla crisi dei subprime e salvare il sistema bancario Usa. La Pelosi rimane tra i più odiati politici democratici, considerata settaria e faziosa dai repubblicani.
La sfida con McConnel
Il Senato resterà quasi certamente nelle mani dei repubblicani (si devono tuttavia attendere due ballottaggi a gennaio in Georgia) ma Biden non teme di vedersela con il leader repubblicano Mitch McConnel: i due hanno una relazione di vecchia data e si stimano.
McConnell è stato l'unico senatore repubblicano a partecipare ai funerali nel 2015 di suo figlio Beau e non l’ha attaccato sulle avversità dell'altro figlio, Hunter. Probabilmente Biden è oggi l’unico democratico di peso in grado di negoziare con il partito opposto. Ma in questo suo tentativo avrà contro le ali estreme dei due partiti, incluso il suo.
All’interno dei partiti
A Washington si dice assomigli ad una miscela di Gerald Ford e Jimmy Carter. Di Ford, una delle figure più misconosciuta della politica americana malgrado sia stato presidente, ha la stessa riconosciuta profondissima conoscenza dei meccanismi della macchina politico-amministrativa americana.
Non si tratta di banalità: sapersi districare tra le innumerevoli trappole della politica Usa rappresenta un talento raro in un tempo di estremismi emotivi che non risparmiano gli eletti. I due grandi partiti sono sempre in guerra fra loro.
La cosa peggiore tuttavia è che non riescono a trovare al loro interno i leader per occupare posti di direzione come la presidenza delle commissioni o dello stesso Congresso.
Uno scontro ideologico permanente
Un tema delicatissimo: da parte democratica, malgrado tutta la sua forza, Nancy Pelosi ha dovuto sudare per farsi riconfermare l’ultima volta ed ora, con una maggioranza in Congresso ancor più stretta, sarà più difficile.
La squad gliel’ha giurata e l’attuale diminuzione dei seggi la rende responsabile del fallimento: c’è chi prevede un cambio al vertice del nuovo Congresso 2020. Sul lato opposto è anche peggio: complice l’ala estrema (Tea parties ecc), i repubblicani hanno fatto dimettere autorevoli speaker come John Boenher, per giungere alla difficile nomina di Paul Ryan, un compromesso che scontentò tutti e per il quale si sprecò molto tempo.
In sintesi la polarizzazione rende la vita politica di Washington uno scontro ideologico permanente (qualcuno lo paragona ad una guerra civile o guerra culturale sui valori) tra i due partiti, rendendo le cose molto complicate all’interno dei partiti stessi.
Riforme bloccate
In tale contesto non sarà possibile avanzare su annosi temi controversi come il “redistricting”, cioè il ridisegno dei distretti elettorali per farli combaciare con i cambiamenti demografici in un paese dalla alta mobilità interna, o il cosiddetto “court packing” cioè l’aumento del numero dei giudici della corte suprema (e di conseguenza delle corti supreme statali).
Non c’è abbastanza fiducia e non pare sia davvero tempo per riformare l’articolato sistema giudiziario americano (occorre sempre ricordare che gli Usa sono una federazione con circuiti giudiziari statali e federali sovrapposti), né il sistema elettorale, inclusa la parte materiale sui meccanismi di voto, malgrado le evidenti aporie.
La polemica che i legali di Trump stanno portando avanti in questi giorni riguarda, ad esempio, i voti spediti per posta. Non si deve pensare ad un’invenzione trumpiana: su tali voti c’è sempre stato dibattito, soprattutto riguardo alla data di arrivo delle buste: fino a quando accettarle? Tutte questioni che Biden – da vero inside guy della capitale – conosce a memoria e sulle quali non ha mai avuto posizioni ideologiche.
La positività di Carter
Di Jimmy Carter il neo presidente eredita invece l’empatia, la semplicità e l’onestà che sono riconosciute all’ex presidente. A Biden, come a Carter, piace trovarsi tra la gente, parlare il linguaggio di tutti i giorni, magari anche straparlare e rischiare la gaffe. Si tratta di un atteggiamento sempre positivo, simpatico e mai aggressivo, esattamente come “l’uomo dal sorriso”, così era chiamato il presidente Carter.
Malgrado i lutti subiti (morte della prima moglie e di due figli), Biden non ha mai abbandonato una positività ottimistica molto americana, almeno dell’America di una volta. Non è un intellettuale come Obama, molto più cervellotico e razionale nell’approccio. Pur politico calcolatore, Biden piace perché appare spontaneo ed empatico alla maggioranza dei suoi concittadini.
Il governo
Detto questo rimane certo che Biden sceglierà la sua squadra secondo criteri propri e sarà molto difficile per chiunque influenzarlo, inclusi i maggiorenti democratici. Mentre Obama fece ricorso ai clintoniani, Biden ha i suoi fedelissimi e porterà alla Casa Bianca sessantenni sperimentati e calmi (come ha già fatto da vicepresidente), in grado di parlare con tutti. Dovrà soltanto lasciare un po’ di spazio alle minoranze.
Non è escluso che chiami alcuni repubblicani moderati a far parte del governo, anche se è consapevole che tale tipo di accorgimenti in passato non ha mai funzionato. Per ricucire coi repubblicani dovrà trovare altre carte: gli servirà il loro appoggio (almeno in senato) per far passare le sue leggi.
Kamala contro la squad
Dovrà anche tenere a bada la squad: è probabile che questo sarà precisamente uno dei compiti di Kamala Harris, scelta per completare l’immagine del presidente.
Non si tratta tanto di conservare il voto afro-americano: Biden stesso è popolarissimo tra i neri, molto più di Obama. Si tratta delle altre minoranze, delle donne ma soprattutto dell’ala sinistra del partito democratico.
L’ex procuratrice si è costruita una doppia immagine che ora torna utile al ticket. Da un lato rimane la giudice law and order che difese poliziotti dalle accuse di razzismo. La Harris non transige in termini di rispetto della legge: quando era procuratrice a San Francisco il tasso di incriminazioni lievitò fino a raddoppiare.
Dall’altra, da quando si è convertita in politico con l’elezione al senato nel 2016, la neo vicepresidente si è battuta per le riforme sanitarie, il programma in favore dei figli degli immigrati clandestini, il bando delle armi d’assalto, l’abolizione della pena di morte. Un’abile miscela di donna, legge e progressismo sulla quale punta Biden.
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