- Al colpo di stato militare del 1 febbraio, architettato dalle forze armate per porre un freno all’inarrestabile strapotere politico della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), ha fatto seguito una densa spirale di violenza, culminata nell’uccisione di almeno tre giovani manifestanti e il ferimento di moltissimi altri.
- Se nel 1988 i manifestanti chiedevano la trasformazione del regime politico e l’adozione della democrazia, allo stato attuale ciò a cui si anela è la piena osservanza del risultato elettorale.
- L’imperativo è quello di prendere le parti, tanto moralmente quanto materialmente, del governo democraticamente eletto e dei movimenti di disobbedienza civile.
La Birmania sta vivendo un periodo di enorme difficoltà: al colpo di stato militare del 1 febbraio, architettato dalle forze armate per porre un freno all’inarrestabile strapotere politico della Lega nazionale per la democrazia (Nld) – guidata dall’icona democratica Aung San Suu Kyi – ha fatto seguito una densa spirale di violenza, culminata nell’uccisione di almeno tre giovani manifestanti e il ferimento di moltissimi altri.
Il parallelismo
Ciò che spicca leggendo le analisi prodotte dai commentatori in questi ultimi giorni è il parallelismo tra la situazione attuale e quanto avvenne in Birmania nel 1988: l’8 agosto di quell’anno, infatti, ci fu un’insurrezione nazionale contro la dittatura militare, volta a ottenere la democrazia.
L’insurrezione fu domata dalle forze armate alla metà di settembre, con il sanguinoso colpo di stato attraverso il quale il potere passò nelle mani della neonata giunta militare.
Gli echi di quell’infausto periodo risuonano, in questi giorni, anche nell’adozione di misure sanzionatorie da parte di alcuni paesi occidentali (Regno Unito, Canada e Stati Uniti, ai quali si aggiungerà presto l’Unione europea) ai danni degli esponenti del regime militare instauratosi in Birmania.
È inutile, forse, sottolineare in questo frangente quanto gli stessi occidentali siano stati poco lungimiranti nel riporre, nel corso degli ultimi anni, la propria fiducia nel Tatmadaw (l’appellativo con cui in Birmania ci si riferisce alle forze armate) e nella sua “normalizzazione”, nonostante l’acclarata responsabilità nel genocidio contro i Rohingya musulmani e le violenze indiscriminate ai danni della popolazione birmana.
Al di là dell’usurpazione illegittima del potere contro il volere della maggior parte della popolazione birmana, che si era recata alle urne lo scorso novembre al fine di eleggere i propri rappresentanti in parlamento, è forse troppo presto per valutare bene quali saranno le implicazioni del colpo di stato in termini di sviluppo politico del paese o quali possano essere le risposte più adeguate da parte della comunità internazionale. Ciononostante, è importante sottolineare come il colpo di stato di alcune settimane fa sia intrinsecamente differente da quello del 1988, e come esso richieda una risposta internazionale diversa.
Creare le condizioni
La differenza sostanziale sta nel fatto che se nel 1988 i manifestanti chiedevano la trasformazione del regime politico e l’adozione della democrazia, allo stato attuale ciò a cui si anela è la piena osservanza del risultato elettorale e, di conseguenza, la garanzia che ha avuto successo sia messo nelle condizioni di poter governare.
I demiurghi del colpo, muovendosi astutamente tra le pieghe della costituzione adottata nel 2008, hanno rassicurato il popolo che un governo potrà insediarsi dopo una nuova consultazione elettorale.
Tale processo dovrebbe esaurirsi in un periodo dai due ai tre anni.
Nel mentre, è molto plausibile pensare che lo sforzo principale degli esponenti del Tatmadaw sarà quello di marginalizzare quanto più possibile l’Nld, di modo che quest’ultima non possa più ripetere l’exploit elettorale dello scorso novembre.
Di fatto, sebbene la strategia e le azioni delle forze armate ricordino quanto avvenuto nel 1988, il Tatmadaw di oggi risulta certamente meno isolato rispetto a trent’anni fa. Il suo principale esponente, il generale Min Aung Hlaing, per esempio, è un politico navigato, e a suo agio sia negli incontri con esponenti politici stranieri sia con le più recenti tecnologie informatiche, che da tempo mirava alla presidenza del paese.
In aggiunta, anche l’ideologia del Tatmadaw è andata affinandosi.
Se, infatti, tra gli anni Sessanta e Ottanta i soldati subivano un indottrinamento volto a convincerli della peculiare pericolosità della democrazia, allo stato attuale essi hanno imparato che il proprio dovere è quello di proteggere ciò che la carta costituzionale definisce un “sistema multipartitico”, qualunque cosa ciò ai loro occhi significhi.
Le forze politiche e l’occidente
Lo scenario politico birmano al giorno d’oggi è sicuramente più pluralistico rispetto al passato. Negli anni Novanta le forze armate erano quasi totalmente isolate dal resto della società ed avevano individuato nell’Nld il proprio principale nemico.
Rispetto ad allora, le forze armate hanno acquisito un’importante centralità politica – seppur non testimoniata in termini di preferenze elettorali – all’interno di un ventaglio di forze che raccoglie alcune compagini buddhiste con caratteristiche fortemente nazionalistiche e gruppi civili fermamente opposti a conferire ad Aung San Suu Kyi e al suo partito la responsabilità di governare il paese. Dall’altro lato, l’Nld è andata progressivamente configurandosi come un’organizzazione in grado di coalizzare attorno a sé un ampio network di gruppi civili, riuscendo a fare leva soprattutto sull’immenso consenso popolare legato alla figura di Aung San Suu Kyi.
Un paese diviso
Ambo le parti possono contare sul sostegno di segmenti diversi della popolazione; ciononostante è indubbio – come dimostrato ampiamente dai manifestanti che in questi giorni si sono riversarti nelle strade di tutto il paese – che quelli che invocano la restaurazione di un sistema (pseudo) democratico siano la stragrande maggioranza.
A un certo punto è probabile che la scelta dei militari sia quella di rintracciare un compromesso o di ricorrere alla violenza indistinta e su vasta scala per ristabilire l’ordine sociale.
La Birmania è molto cambiata rispetto a trent’anni fa, in termini di integrazione politica e soprattutto economica con il resto del mondo. Ciò detto, sebbene i militari avrebbero sicuramente più da perdere che da guadagnare se decidessero di fare ricorso alla forza – dato che ciò si tradurrebbe immediatamente in un sostanziale isolamento da parte della comunità internazionale – essi sono molto meno vulnerabili rispetto al 1988, almeno dal punto di vista delle risorse.
Le armi dei militari
L’accumulazione di grandi quantità di valuta estera (situazione molto diversa dal 1988, quando la Birmania era fondamentalmente in bancarotta), infatti, concede al Tatmadaw la possibilità di assorbire la fuga di investitori stranieri o l’introduzione di sanzioni da parte degli occidentali.
Precisamente in questo difficile momento, comunque, la responsabilità precipua della comunità internazionale dovrebbe essere quella di non abbandonare la Birmania nelle mani dei militari.
È assolutamente necessario non voltare le spalle ma, anzi, l’imperativo è quello di prendere le parti, tanto moralmente quanto materialmente, del governo democraticamente eletto e dei movimenti di disobbedienza civile. La domanda fondamentale non è se le proteste in corso avranno un qualche successo.
Ciò che è fondamentale è usare questo momento particolare per assicurare il massimo grado di apertura ed inclusività del quadro politico che andrà delineandosi. Ogni piccola spinta in tale direzione, infatti, potrebbe avere un impatto durevole nel futuro politico del paese.
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