- Stefano Pontecorvo è cresciuto da bambino in Afghanistan, figlio di un diplomatico, poi ci è tornato da ambasciatore, come senior civilian representative della Nato.
- Meno di un anno fa era a Kabul a gestire il momento più drammatico di questi anni, nell’estate 2021, cioè la fine della missione internazionale e il ritiro di truppe e personale, mentre il paese tornava in mano ai talebani.
- Ne ha scritto in un libro appena pubblicato da Piemme, L’ultimo aero da Kabul – Cronaca di una missione impossibile. Quella vicenda afghana offre molti spunti per capire quali sono gli errori da non ripetere nella guerra in Ucraina e nei confronti della Russia di Vladimir Putin.
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Stefano Pontecorvo / Foto AP
Stefano Pontecorvo è cresciuto da bambino in Afghanistan, figlio di un diplomatico, poi ci è tornato da ambasciatore, come senior civilian representative della Nato. Ora è in pensione, ma meno di un anno fa era a Kabul a gestire il momento più drammatico di questi anni, nell’estate 2021, cioè la fine della missione internazionale e il ritiro di truppe e personale, mentre il paese tornava in mano ai talebani. Ne ha scritto in un libro appena pubblicato da Piemme, L’ultimo aero da Kabul – Cronaca di una missione impossibile. Quella vicenda afghana offre molti spunti per capire quali sono gli errori da non ripetere nella guerra in Ucraina e nei confronti della Russia di Vladimir Putin.
Ambasciatore Pontecorvo, partiamo dall’Afghanistan. Nel 2001, dopo la caduta delle torri gemelle, gli Stati Uniti prima e poi la Nato decidono un intervento militare in Afghanistan contro il regime dei talebani che ospitava Al Quaeda e Osama Bin Laden. Col senno del poi è stato un errore?
No. L’undici settembre nei piani di Al Quaeda era soltanto una tappa nel sentiero del terrore. Abbiamo fermato la minaccia all’origine. L’errore è stata la mentalità punitiva che non distingueva le responsabilità dei vari attori che ha portato a considerare l’Afghanistan una tabula rasa su cui innestare valori che non appartenevano alla cultura locale. In quella fase abbiamo sbagliato tutto.
Il problema è stata la velleità di esportare la democrazia.
Quello e la non curanza dei costumi locali di un popolo molto fiero. Come occidente, americani ed europei, dobbiamo smetterla di considerare tutto il resto del mondo come oggetto di politica estera e non soggetto. Dobbiamo decidere insieme agli altri, non pretendere di imporre le nostre scelte. Non ha funzionato in Afghanistan, non sta funzionando in Ucraina.
Uno degli errori, scrive lei nel libro, nella gestione dell’Afghanistan è stato quello di non includere i talebani nella discussione sul futuro dell’Afghanistan. Si deve trattare anche con il nemico, e addirittura col nemico sconfitto?
I talebani fanno parte della storia afghana, con nomi diversi, da molto tempo. C’è un nocciolo duro della popolazione, minoritario ma battagliero, che è oltranzista sul piano religioso. Esiste e conta. I talebani erano una “insorgenza” autoctona: i locali sanno che lo straniero occidentale se ne va mentre il talebano resta. Una politica senza visione fallisce se imposta il futuro considerando soltanto le responsabilità passate e non le prospettive future.
Il ritiro caotico nel 2021 è stato una scelta obbligata o c’erano alternative?
Senza gli americani non c’erano possibilità di controllare il paese. Il presidente Joe Biden non vedeva l’ora di andarsene, anche se l’intelligence americana aveva previsto esattamente quello che sta succedendo adesso: un paese in mano ai terroristi, Al Quaeda che si sta rinforzando, i cinesi che sono entrati per aiutare Al Quaeda contro Daesh…
Poi dell’Afghanistan ci siamo dimenticati.
I problemi dell’Afghanistan sono enormi, e non riguardano soltanto la tragedia delle donne i cui diritti sono stati cancellati. Ci sono anche grandi problemi politici: abbiamo appurato che il ministro dell’Interno, Sirajuddin Haqqani, appartiene ai vertici di Al Quaeda che aiuta i talebani sia contro l’Isis nel nord che contro il Fronte nazionale che si è ripreso parte del Panshir. I cinesi sono entrati e hanno occupato una parte di Bagram per addestrare i talebani in funzioni anti Isis e anti Al Quaeda, anche se ormai sono una cosa sola con Al Quaeda. Gli indiani cercano di continuare la guerra di prossimità con i pakistani sul territorio afghano.
In Ucraina stiamo creando una situazione afghana, armando l’esercito di Kiev come una volta armavamo i talebani contro i sovietici?
Se non diamo armi all’Ucraina, non c’è più l’Ucraina. Punto.
Immaginiamo di arrivare a un cessate il fuoco. In questo caso, per non replicare gli errori afghani, dovremmo trattare con Putin, anche se magari sconfitto?
Ho vissuto in Russia otto anni, parlo russo: i russi non si fanno manipolare, non accetteranno mai intese sottobanco per far fuori Putin. Abbiamo poca influenza sulle dinamiche interne, meglio non sopravvalutarla. Dovremo trovare un punto di caduta politico di questa crisi, ma al momento i tre attori principali – Russia, Ucraina e Stati Uniti – si muovono su tre piani diversi che non si intersecano.
I russi hanno bisogno di un successo e Putin deciderà quale può essere, in questo momento è lui il direttore d’orchestra. Gli ucraini sono vittime del proprio successo e sono tentati dal passare dalla difesa del proprio territorio all’idea, irrealizzabile, di disarmare la Russia. Gli americani vogliono annientare la futura minaccia russa distruggendo il loro esercito, cosa irrealizzabile. Non vi è pertanto alcun punto di contatto tra questi livelli che consenta un negoziato. Noi possiamo continuare ad armare gli ucraini, ma dobbiamo far capire loro e ai polacchi e a molti altri, che bisogna mantenere un senso di realtà.
Qual è il nostro obiettivo di medio periodo? Resistenza armata, espansione della Nato e sanzioni servono a mettere Putin ai margini del sistema internazionale, a favorire un cambio di regime, a garantirci una Russia debole come fosse una grande Corea del Nord…. Non è mai esplicito.
Qualche tempo fa ero nella lobby di un albergo a Doha e aspettavo un talebano che, come sempre, era in ritardo. Accanto a me c’erano un imprenditore birmano, uno srilankese e un malese che, con un banchiere qatarino, stavano negoziando un impianto di cuscinetti a sfera da 800 milioni di dollari. C’è tutto un pezzo di mondo lì fuori che va avanti e prospera anche senza interagire con l’occidente.
Pensare di voler isolare la Russia, come succede a ogni occasione in cui si vota all’Onu, è molto rischioso. In tanti stanno osservando come noi reagiamo a questa crisi per capire le prospettive: quel pezzo di mondo che non interagisce con l’occidente, è comunque costretto a vivere e muoversi in un ordine internazionale costruito dall’occidente.
Quindi potremmo scoprire che se escludiamo troppi soggetti come la Russia dall’ordine globale che abbiamo costruito su misura delle nostre esigenze, poi se ne crea un altro, alternativo, o comunque ci troviamo in minoranza e perdiamo il controllo.
Pochi paesi hanno seguito Stati Uniti e Ue nelle sanzioni europee, gli indiani – simbolo della democrazia nei paesi emergenti – continuano a fare affare con i russi approfittando dei prezzi scontati effetto delle sanzioni. La Cina è uno dei pochi paesi che antepone gli interessi economici a quelli politici, dunque non può fare strappi. Non vedo una rottura in blocchi, ma la situazione è complessa.
Essere muscolari può sembrare rassicurante, ma non possiamo permettercelo: tre quarti del mondo non ci segue più e studia la crisi ucraina per capire come e quanto è davvero dipendente dalle istituzioni occidentali, come il sistema di pagamenti Swift, e se può farne a meno.
I diplomatici di rado si sbilanciano a fare previsioni, ma le chiedo se lei guarda alla guerra in Ucraina come a una fiammata destinata a esaurirsi presto o a un fenomeno di lunga durata.
Credo che si andrà verso un conflitto congelato. Nelle zone contese, o meglio invase dalla Russia, c’è il secondo giacimento europeo offshore di gas, fra la Crimea e Odessa, poi ci sono le miniere del Donbass, l’acciaieria Azofstal, la gran parte dell’energia nucleare ucraina…
Ci sono anche motivazioni economiche dietro l’interesse russo per quelle zone, dove Mosca ha mandato russi a colonizzare e così ora può giustificare l’aggressione con la loro difesa. E così ne mantiene il controllo. Quando hai schierato 30mila militari su un confine, come ha fatto Putin, chi li può sloggiare? E intanto la Russia prende il controllo delle istituzioni locali, della scuola, della formazione, dell’economia. Una russificazione che congela il conflitto.
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