Nel paese latinoamericano con la chiusura totale più lunga del mondo, arrivano danno e beffa: dopo chiusure rigide e record di decessi, ora la crisi economica
- Nessuno è rimasto chiuso in casa quanto gli argentini: il lockdown totale è cominciato il 20 marzo, qualche apertura c’è stata solo tra luglio e agosto e molte restrizioni sono tuttora in vigore.
- La linea dura è stata un flop: il virus è esploso in maniera violenta da settembre, e da allora l’Argentina è al vertice mondiale di vittime per milione di abitanti.
- Sprofonda del tutto una economia in crisi già da un decennio. Gli indici di povertà sono esplosi al 41 per cento, l’inflazione è al 37 e il Pil dovrebbe crollare quest’anno del 12 per cento. Peggio della grande recessione del 2001-2002.
Finché c’era ancora in giro l’autoironia la chiamavano quareterna, quarantena eterna. Nessuno è rimasto chiuso in casa quanto gli argentini: il lockdown totale è cominciato il 20 marzo e qualche apertura c’è stata solo tra luglio e agosto. Molte restrizioni sono tuttora in vigore. C’è di peggio. La linea dura è stata un flop: il virus è esploso in maniera violenta da settembre, e da allora l’Argentina è tra i peggiori posti al mondo nella pandemia, con un milione di contagiati. Da un mese è al vertice mondiale di vittime per milione di abitanti: otto al giorno. Insomma un disastro, una unica onda che solo cresce.
Lockdown vano
Un caso quello argentino che al pari della Svezia (all’opposto il paese più soft per restrizioni) scatena dibattiti infiniti tra esperti e diatribe al bar. Avete visto? I lockdown non servono a nulla. Se non a mettere in ginocchio l’economia. La seconda parte dell’argomento è certamente vera, perché l’Argentina è in una tempesta perfetta, peggiore di quella del 2001-2002 (il famoso default dei tango bonds). Esiste comunque un certo consenso su quanto sta accadendo, e un paio di lezioni utili ovunque. La prima: è più difficile riaprire che chiudere, ed è facilissimo vanificare gli sforzi precedenti; la seconda è che il virus ama viaggiare e cerca sempre praterie vergini (in questo caso pampas) per fare danni. Da questo punto di vista il caso argentino, anche per le caratteristiche geografiche del paese, è esemplare. Quando nella notte del 19 marzo il presidente Alberto Fernández annunciò il lockdown totale, molti rimasero increduli. C’erano stati appena tre morti per covid in tutto il paese, ma la formula era la più dura: isolamento “social preventivo y obligatorio” scandì le sillabe in tv Fernández, nemmeno fosse un militare di altre epoche. Vietato uscire di casa se non per andare in farmacia e al supermercato, e a giorni alterni, come le targhe, numeri pari e dispari della carta di identità. Stop a tutte le attività produttive non essenziali. Non solo multe per le passeggiatine sotto casa, ma rischio di arresto in flagrante. Polizia a ogni angolo di strada, carta di identità con indirizzo da tenere in tasca. All’inizio gli argentini accettarono le restrizioni persino con un certo orgoglio. Mentre il Brasile offriva al mondo il peggior esempio di confusione e incoscienza, con un Bolsonaro negazionista, da sud ecco una bella prova di senso civico. E i risultati si vedevano. Dopo un mese di quarantena i contagi in tutta l’Argentina erano appena duemila, i morti 90. Anche in maggio e giugno i danni del virus sono relativi, ma il governo tiene duro con le restrizioni. Qualcuno sosteneva che Fernández stesse sfruttando la pandemia per guadagnare tempo nelle trattative con i creditori sul debito estero: in quei mesi il paese finì tre volte a un passo dal default, per mancati pagamenti.
Economia al collasso
Fino a luglio il virus era concentrato, per oltre il 90 per cento, a Buenos Aires e dintorni. Poiché il lockdown è nazionale, a un certo punto il sacrificio di tutti allo stesso modo viene considerato eccessivo, ed è così che a luglio quella che doveva essere una flessibilizzazione graduale si trasforma in un “liberi tutti”. Il contagio si impenna prima nelle favelas della Grande Buenos Aires, e poi verso le province più lontane, dalle Ande alla Terra del Fuoco. Oggi le proporzioni si sono invertite: nella capitale e dintorni soltanto il 30 per cento di casi e decessi, il resto è nelle province. L’Argentina non ha usato i mesi “virtuosi” per potenziare gli ospedali, le terapie intensive. I politici pensavano di averla fatta franca e oggi la situazione sanitaria è al collasso.
Così come non poteva non sprofondare del tutto una economia in crisi già da un decennio. Gli indici di povertà sono esplosi al 41 per cento, l’inflazione è al 37 e il Pil dovrebbe crollare quest’anno del 12 per cento. Peggio della grande recessione del 2001-2002: le statistiche dicono che l’indice di mortalità delle imprese ha già superato quei livelli. Il governo era riuscito a chiudere un accordo con i creditori per tagliare un maxidebito estero da 68 miliardi di dollari, e sta ancora trattando con l’Fmi per rinegoziare un grosso prestito ottenuto negli anni della presidenza di Mauricio Macri. I peronisti hanno dimostrato più abilità della destra liberista, nell’eterna lotta con la finanza internazionale, ma davanti a una ecatombe del genere ciò può fare poca differenza. Gli argentini sono poi tornati a accumulare dollari in casa e ignorare la propria moneta. Risultato è che sul mercato nero un biglietto verde vale 190 pesos, più del doppio del cambio ufficiale. E così l’opzione di chiudere tutto è inesistente. L’Argentina sta aprendo le frontiere in vista dell’estate, e dopo otto mesi di chiusura a Buenos Aires riaprono parzialmente bar, ristoranti e palestre. La motivazione è che i contagi stanno diminuendo nella capitale. Si può fare altro?
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