Il miglior ex presidente della storia. Così veniva spesso ricordato James Earl Jr. Carter, per tutti “Jimmy”, scomparso il 29 dicembre alla veneranda età di 100 anni. A rimarcare la sua straordinaria azione post presidenziale, contraddistinta da prese di posizioni coraggiose e non scontate, dalla dura critica alle politiche d’Israele nei territori occupati a quella dell’intervento statunitense in Iraq nel 2003 alla denuncia del carcere di Guantanamo o dell’uso intensivo di droni da parte dell’amministrazione Obama.

E segnati, questi anni successivi alla sua presidenza, dall’impegno con la sua organizzazione non-profit nella promozione dei diritti umani, in campagne contro malattie letali in Africa e in ambiziosi progetti di lotta alla povertà negli Usa. Oltre che dalla disponibilità a mettersi al servizio del paese e svolgere funzioni diplomatiche in importanti negoziati, su tutti quelli che negli anni Novanta aprirono un primo, faticoso dialogo tra Stati Uniti e Corea del Nord.

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La sua presidenza

L’enfasi su queste iniziative post presidenziali tende però più o meno implicitamente ad abbracciare l’idea, oggi contestata da molti storici, che i suoi quattro anni di presidenza tra il 1977 e il 1981 furono in gran parte fallimentari.

D’altronde Carter fu il primo presidente in carica dai tempi di Herbert Hoover, nel 1932, a essere sconfitto nel suo tentativo di ottenere un secondo mandato (e il primo democratico da Grover Cleveland nel 1888). Fu pesantemente battuto da Ronald Reagan nel 1980, con uno scarto nel voto popolare di quasi dieci punti percentuali. E terminò il suo solo mandato con tassi di apprezzamento del suo operato bassissimi, tra il 30 e il 35 per cento (dopo di allora solo Bush Jr. avrebbe fatto peggio).

Pesarono, su questa impopolarità e sulla débâcle elettorale del 1980, vari fattori, dall’umiliante vicenda degli ostaggi americani nell’ambasciata di Teheran (culminata nel fiasco dell’azzardata operazione di loro recupero che Carter incautamente approvò) al ritorno, breve ma intenso, di una Guerra fredda con l’Urss per la quale Carter appariva inadeguato e che strideva col suo tentativo, negli anni precedenti, di rilanciare su basi ancor più ambiziose la distensione con Mosca.

E pesò, tantissimo, un’inflazione, i cui riverberi politici ed elettorali siamo tornati a sperimentare in tempi recenti. Incise però anche il coraggio di diverse iniziative dell’amministrazione Carter: il suo essere addirittura in anticipo sui tempi e il suo contestare alcuni assiomi, problematici ma popolari, del nazionalismo statunitense che Reagan avrebbe invece rilanciato senza remore. Lo vediamo bene in vari ambiti delle politiche carteriane e della retorica utilizzata per spiegarle e giustificarle: di quella pedagogia pubblica che il pulpito presidenziale offre (e impone) a chi vi ha accesso.

Il suo più gran successo

Carter promise di liberare gli Usa dal camice di forza, strategico e morale, della Guerra fredda: di liberarli da quella «esagerata paura del comunismo» che a lungo aveva indotto Washington «ad abbracciare qualsiasi dittatore che si unisse a noi in quella paura», come affermò in uno dei suoi primi famosi discorsi tenuto all’Università di Notre Dame nel maggio del 1977.

Introdusse condizionalità nuove nei rapporti con diversi alleati autoritari degli Usa, in particolar modo in America latina, vincolando la continuazione di aiuti economici e militari al loro rispetto di fondamentali libertà e diritti umani. Diede spazio e ruolo ai nuovi, influenti attivisti (proprio nel 1977 Amnesty international sarebbe stata insignita del premio Nobel per la Pace), creando un apposito sottosegretariato di stato per i diritti umani. E agì coerentemente su molti dossier, investendo non poco capitale politico nel negoziare il trasferimento a Panama della sovranità sul canale, emblema dell’imperialismo statunitense in Sudamerica, o rifiutandosi di puntellare il regime di Somoza in Nicaragua. Decisioni ferocemente contestate dalla destra e da parte del suo stesso partito (il trattato con Panama fu ratificato di misura dal Senato). Accompagnate da quello che fu forse il suo più importante successo diplomatico, gli accordi di Camp David tra Egitto e Israele.

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Nuovi limiti

In parallelo – per fronteggiare la crisi energetica e dare risposta ai temi di un ecologismo che irrompeva prepotentemente sulla scena pubblica e nel dibattito politico – promosse iniziative, pratiche e simboliche, senza precedenti la cui lungimiranza appare oggi ancor più rimarchevole, sostenendo investimenti in rinnovabili e promuovendo politiche finalizzate alla riduzione degli sprechi e al consumo responsabile.

Per dare il buon esempio, fece installare dei pannelli solari sul tetto della Casa Bianca e fissò con un ordine esecutivo le temperature massime e minime consentite negli edifici pubblici (uno dei primi atti di Reagan dopo la sua elezione fu di revocare entrambe le azioni).

Accompagnò tali iniziative con un invito accorato ad accettare nuovi limiti nei propri stili di vita e nei consumi, e a recuperare la solidarietà e lo spirito comunitario che il paese stava perdendo, come affermò nel suo discorso forse più famoso, quello sulla “crisi di fiducia” del luglio 1979. Era in anticipo sui tempi e, forse, anche fuori dai suoi tempi. Perché alla fine l’enfasi sui limiti, il senso di responsabilità, l’austerity, i termosifoni e l’aria condizionata da abbassare, l’auto da lasciare in garage a favore dei mezzi pubblici mal si conciliavano con quella radicale virata edonista e consumista che gli Usa erano prossimi a intraprendere e che avrebbe trovato in Ronald Reagan il suo cantore e profeta.

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