L'ombra della guerra ucraina, cominciata con una protesta di piazza a Kyiv nel 2014, non scoraggia i giovanissimi che da Budapest a Belgrado fino a Tblisi, scendono in strada a protestare contro i loro governi. Esecutivi allineati a politiche e dinamiche che, almeno fino a ieri, appartenevano solo alla Federazione russa
Quante lontane Maidan illuminano la notte del Cremlino. Quanti echi di rivoluzioni all'orizzonte ne disturbano il sonno. Potrebbe non essere solo la partita d'Ucraina, nell'immediato prossimo futuro, l'unico problema che avrà Mosca.
L'ombra della guerra ucraina, cominciata con una protesta di piazza a Kyiv nel 2014, non scoraggia i giovanissimi che da Budapest a Belgrado fino a Tblisi, scendono in strada a protestare contro i loro governi. Esecutivi allineati a politiche e dinamiche che, almeno fino a ieri, appartenevano solo alla Federazione russa.
Alla fine a Belgrado hanno tirato le somme: non erano decine di migliaia, come dicevano le autorità, i ragazzi che sabato hanno invaso briosi la Capitale, ma almeno 325mila. Sono riusciti a coinvolgere i meno giovani, i lavoratori, gli insegnanti, perfino i trattoristi che, fusi in un corpo solo, hanno dato vita alla manifestazione più gigante che Belgrado abbia mai visto dal crollo dell'impero sovietico e della sua sfera d'influenza. Sulla lingua slogan anti-governativi, addosso e in mano bandiere tricolore.
Tutti insieme hanno chiesto le dimissioni del presidente Vucic che, dal collasso del tetto della stazione di Novy Sad – quello che ha dato inizio alle proteste- rischia di assistere a quello del suo governo, già trafitto da allontanamenti e dimissioni per la pressione di una piazza mai vista prima così piena, rinfoltita invece che sguarnita dalle settimane che passano.
Dal giorno del disastro avvenuto il primo novembre 2024 alla stazione della seconda città del Paese, dopo la morte di 15 persone, la furia giovane di Belgrado niente e nessuno è stato capace di arrestarla. «Siamo riusciti a mantenere la pace» ha detto ieri Vucic, commentando la sua settimana più difficile e omaggiando le sue forze dell'ordine. Dice di aver recepito il messaggio: «Dobbiamo cambiare noi stessi».
La piazza – la stessa su cui ha tentato di soffiare sopra, pensando di poterla spegnere, ed è invece cresciuta come una bolla ciclopica che rischia di esplodergli tra le mani – vuole che vada via, si allontani: non si accontenterebbe di un'inversione di marcia, che comunque nemmeno si intravede.
Solo giovedì scorso il presidente ha accolto il responsabile dell'organizzazione Trump, Don Jr, figlio del presidente statunitense, alle cui aziende presto cederà l'edificio dell'ex ministero della Difesa, monumento alla memoria dei bombardamenti subiti negli anni '90 dalle forze Nato. Si trova al centro della città, dove ieri sfilavano i ragazzi.
Non solo Mosca o Pechino: Vucic ora fa sponda anche a Washington e ai suoi emissari repubblicani ha detto che le proteste sono organizzate da «forze esterne».
L’Ungheria
Sabato anche la piazza di Budapest si è riempita. E anche lì la bandiera che si alzava al vento era quella nazionale. Attivisti e opposizione erano in strada per chiedere la fine del governo di Viktor Orban, il premier che rimane in cima alla catena alimentare politica magiara da ormai quindici anni. In cinquantamila nel giorno della nazione ungherese hanno supportato la nemesi del premier, Peter Magyar, 43enne e filoeuropeo.
«È arrivato il tempo», ha detto l'ex alleato di Orban trasformatosi in suo oppositore, «per Tisza»: è il partito di Magyar, secondo nel paese dopo Fidezs al governo, che prende nome da un fiume ungherese (pure quello secondo per lunghezza in Ungheria).
«Il Tisza sta esondando»: lo slogan degli ungheresi di piazza è una metafora utilizzabile anche per la lettura dei sondaggi che danno il rampante pro-Bruxelles, che vuole dare «voce alla nazione», in vantaggio sul dinosauro veterano e populista. Ma le elezioni sono lontane e adesso la squadra Orban si può solo denunciare, non sconfiggere: «Fanno di tutto ciò che in loro potere per controllare e limitare le nostre attività», dicono gli attivisti.
Orban vuole addirittura una riforma costituzionale che permetterà l'espulsione di cittadini con doppia cittadinanza che costituiscono un pericolo per la sovranità nazionale. Contro «l'esercito ombra» - così ha definito il premier ong e media indipendenti - promette un repulisti: «Arriva la grande pulizia di Pasqua poiché alcuni insetti sono sopravvissuti all'inverno».
Il capo di Stato ungherese, come quello serbo, è scaltro. È ancora lì perché è stato capace di usare ogni spiffero di vento che abbia mai soffiato in suo favore e ora ha addirittura un ciclone che lo agevola in arrivo da oltreoceano: Trump, di cui è amico e alleato.
La Georgia
Dai Balcani al Caucaso, le immagini si assomigliano. Anche i ragazzi di Tblisi sono in piazza da mesi. La testa dell'opposizione che guarda verso l'Ue porta il volto dell'ex presidente Salomé Zourabishvili, ora soppiantata dall'ex calciatore Mikheil Kevelashvili. A tirare le fila del potere in Georgia è il cardinale grigio del partito Sogno georgiano al potere, il burattinaio Bidzina Ivanishvili, nato scalzo e povero nella provincia georgiana, diventato re Mida e oligarca in terra sovietica, poi russa.
Se si accostano i fotogrammi delle manifestazioni delle tre piazze, sembrano illuminati dagli stessi lacrimogeni, ideali e rivendicazioni. Contro la corruzione, per un futuro rubato, i ragazzi incanalano la rabbia in quel vuoto scavato dall'assenza di reali alternative politiche e di cambiamento.
A dicembre scorso, davanti al gioco di luci dei fuochi d'artificio, tirati insieme alle molotov contro gli scudi della polizia di Tblisi, il Cremlino ha dato un nome allo spettro che si aggira nei territori che rimangono nella sua sfera d'influenza.
Si tratta di un «tentativo di destabilizzare la situazione», ha dichiarato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov: «il più diretto parallelo che può essere fatto è con gli eventi di Maidan in Ucraina».
Mosca non può evitare il dejavù degli spettri della piazza kievita che nel 2014 ha avviato il più grosso smottamento tettonico, politico e militare, della storia dei territori dell'ex Unione Sovietica. Se un'altra piazza in futuro dovesse vincere, dovrà però ricordare in tempo che questa volta l'America non sarà dalla sua parte.
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