- Biden aveva detto che Cuba non era una sua «top priority». Non occuparsene è il sogno di qualunque inquilino della Casa Bianca, visto che sul piccolo vicino di casa caraibico non ce n'è uno che abbia azzeccato qualcosa.
- Ora invece manda segnali di voler mantenere la linea dura di Trump, parla delle manifestazioni come «un evidente desiderio di libertà dopo decenni di repressione e sofferenza economica a causa di un regime autoritario».
- La storia ci ricorda che nelle due precedenti grandi ondate di malcontento popolare, Fidel Castro rispose provocando un serio problema agli Usa e cioè lasciando partire da Cuba tutti coloro che lo volessero.
E adesso Biden? Cosa farà l’ex sleepy Joe davanti al più duraturo e ingarbugliato problema di politica estera degli Stati Uniti d’America? Le manifestazioni di piazza scoppiate domenica a Cuba – se non del tutto inattese, di proporzioni inedite – costringono ora il presidente Usa a tirar fuori dal cassetto un dossier che aveva volutamente dimenticato. L’ultima volta che se n’era parlato, lo scorso marzo, Biden aveva detto che Cuba non era una «top priority». Se non succede nulla meglio così, insomma. È il sogno di qualunque inquilino della Casa Bianca, visto che sul piccolo vicino di casa caraibico non ce n’è uno che abbia azzeccato qualcosa negli ultimi 60 anni, e molti politici si sono giocati la carriera.
Biden naturalmente una dichiarazione doveva farla dopo i fatti della domenica. Con un po’ di ritardo, prima per iscritto e poi a voce, ha sostenuto che gli episodi sono «notevoli» e segnalano «un evidente desiderio di libertà del popolo cubano dopo decenni di repressione e sofferenza economica a causa di un regime autoritario». Non sono parole ovvie, anzi. Biden è stato pur sempre il vice dell’amministrazione che più ha evitato di bollare Cuba con questi termini, quella di Barack Obama, e che ha cercato e voluto il disgelo sorvolando sulle divergenze ideologiche. È stato Biden a preparare lo storico viaggio del suo boss a Cuba nel 2016 e la stretta di mano con Raul Castro.
Effetti della linea dura
Poi però è arrivato Donald Trump, il quale ha azzerato buona parte di quella apertura. Biden ora appare schiacciato tra le due posizioni estreme. Per sei mesi è stato fermo, lasciando in vigore la stretta del predecessore. E ora fa capire di non voler tornare alle politiche di Obama.
Per capirne di più occorre addentrarsi nel merito, e cioè negli effetti concreti che la linea dura tuttora in vigore sta provocando nell’economia e nella società cubana. L’eterna retorica dell’embargo come causa di tutti i mali, scusa suprema del castrismo, è ancora la prima spiegazione che il regime dell’Avana offre per qualunque problema.
Stavolta è innegabile che almeno alcune delle restrizioni volute da Trump stiano lasciando il segno, come il divieto per le aziende Usa di fare business con quelle cubane controllate dai militari (quasi tutte), le complicazioni sulle rimesse degli emigrati e la stretta sui viaggi individuali, in un momento nel quale Cuba stava preparando la sua industria turistica all’invasione yankee.
La cronica mancanza di benzina e di derrate alimentari dagli scaffali, cause dell’esplosione del malcontento, sono invece assai più imputabili alle inefficienze dell’economia socialista, il lento funzionamento del settore privato e non ultimo al tracollo del Venezuela, che ha aiutato Cuba per 15 anni regalando petrolio e comprando servizi medici e di intelligence. La decisione di Trump di ricongelare le relazioni diplomatiche ha poi fatto svanire il sogno di un visto Usa per decine di migliaia di cubani, visto che nella nuova ambasciata all’Avana non è rimasto quasi nessuno a lavorare.
In queste ore la Casa Bianca sta monitorando con attenzione la situazione a Cuba, per capire se i fatti di domenica avranno o meno un seguito. Se li avessero, Biden non avrebbe più scuse per restare fermo. A ogni scossa sull’isola, la forte comunità cubana della Florida entra in ebollizione, i suoi leader politici si riprendono la scena, si scaldano le linee tra Washington e Miami.
La storia ci ricorda che nelle due precedenti grandi ondate di malcontento popolare, Fidel Castro rispose provocando un serio problema agli Usa e cioè lasciando partire da Cuba liberamente tutti coloro che lo volessero. Nel 1980 ci fu il famoso esodo del Mariel, dal nome del porto che venne aperto sulla costa nord dell’isola (125mila cubani sbarcarono in Florida) e nel 1994 l’analoga fuga dei “balseros”, nome tratto dalle imbarcazioni di fortuna utilizzate. E in questo caso, una parte dei 35mila che lasciarono l’isola non arrivarono mai a destinazione.
Quando Obama, nell’ultima sua settimana al potere, eliminò la famosa direttiva “piede secco, piede bagnato” che consentiva l’asilo politico a chi riusciva a toccare il territorio Usa, ma rispediva indietro quelli intercettati nel tragitto, l’idea era di eliminare la lotteria della morte in mare e far passare le richieste attraverso le rappresentanze diplomatiche appena riaperte. Il dietrofront di Trump, come dicevamo, ha praticamente azzerato i processi migratori legali.
L’incubo Mariel è oggi nelle parole di Marco Rubio, storico senatore repubblicano della Florida, ciò che dovrebbe portare Biden a parlar chiaro ai cubani, a irrigidire le posizioni ancora di più. Ogni minaccia di aprire i porti, dice Rubio, dovrebbe essere bollata come un attacco alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Inoltre gli Usa dovrebbero appoggiare apertamente i manifestanti, aiutare le comunicazioni censurate dal regime fornendo Internet via satellite, sollecitare gli alleati occidentali alla solidarietà con l’opposizione cubana. E soprattutto, dice Rubio, Biden dovrebbe impegnarsi solennemente a mantenere in vigore le politiche di Trump, rimangiandosi quanto aveva promesso in campagna elettorale. Naturalmente Biden soffre anche le pressioni opposte, da sinistra, e cioè ritornare alle politiche di Obama che almeno un po’ di ossigeno ai cubani lo stavano offrendo.
Reagire alla piazza
Tutto dipenderà dai prossimi avvenimenti, ma anche dal tipo di reazione alla piazza del leader cubano Miguel Dìaz-Canel. Al momento è confermata la repressione di media intensità degli ultimi anni, molte manganellate e arresti, ma senza eccedere in violenza o con condanne spropositate, come ai tempi dei dissidenti. Dìaz-Canel è passato in poche ore da parole da guerra civile («i veri rivoluzionari devono scendere in piazza a contrastare i traditori della patria») a una linea meno dura, ma sempre indicando dall’altra parte del mare l’origine di tutto («è in corso un golpe leggero e continuato contro di noi»). Se la situazione dovesse degenerare, invece, il leader cubano si troverà in un territorio sconosciuto, dove né Fidel né Raul Castro hanno mai avuto la ventura di imbattersi.
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