- I ricordi di Matthew sono ancora vivi e dolorosi. Per scaricare la tensione accarezza compulsivamente Bruce, il piccolo cane seduto sopra le sue ginocchia. Fa fatica, ma tra silenzi e sospiri racconta il calvario che ha subito nel 2018 negli Emirati Arabi Uniti, quando è stato imprigionato in una cella per circa sei mesi.
- Dopo mesi di ricerca accademica era pronto a salire su un volo per tornare in Inghilterra ma viene fermato dai poliziotti all’aeroporto di Dubai. Viene incappucciato e rinchiuso in una stanza dell’apparato della sicurezza nazionale.
- Oggi in Inghilterra è aperto un processo legale contro alcuni dei generali e ufficiali arabi che erano a conoscenza del suo caso. Tra questi c’è l’ispettore Naser al Raisi che è tra i candidati alla presidenza dell’Interpol che si voterà tra il 23 e il 25 novembre a Istanbul.
I ricordi di Matthew sono ancora vivi e dolorosi. È stato prigioniero nelle carceri emiratine sotto il controllo, tra gli altri, del generale Ahmed Naser al Raisi, uno dei candidati alla presidenza dell’Interpol.
Per scaricare la tensione accarezza compulsivamente Bruce, il cane di piccola taglia seduto sopra le sue ginocchia. Con fatica tra silenzi e sospiri racconta il calvario che ha subito nel 2018 negli Emirati Arabi Uniti.
«Mi trovavo lì per finire la mia ricerca di dottorato incentrata sull’autoritarismo per l’università di Durham. Conoscevo le persone che stavo intervistando, erano tutti stranieri e non membri della sicurezza nazionale. Mi sentivo al sicuro», dice.
La sua ricerca procede senza intoppi e dopo mesi di lavoro il 5 maggio Matthew è pronto a salire su un volo per tornare in Inghilterra quando viene fermato dai poliziotti all’aeroporto di Dubai. «La situazione era caotica. All’inizio mi hanno detto che non ero in arresto, ma che avrei dovuto seguirli perché ero indagato. Ho subito chiesto un avvocato ma me lo hanno negato».
Matthew viene ammanettato, incappucciato e caricato in una vettura. Stava per incontrare l’ingranaggio repressivo del piccolo stato del Golfo.
Racconta la sua storia in un flusso di coscienza continuo. Ricorda che lo hanno portato davanti al procuratore di stato. Dopo dodici ore di interrogatorio gli ha detto che sarebbe stato trattenuto in attesa che il suo caso venga risolto. Nel frattempo, in Inghilterra, sua moglie Daniela non riesce né a contattarlo né a capire dove sia finito e percepisce che qualcosa non va.
Matthew viene rinchiuso in una stanza di un edificio della sicurezza nazionale ad Abu Dhabi. È un posto dove di solito isolano persone accusate di crimini gravi o di stampo politico. Ma lui è britannico, non avrebbe mai immaginato di essere trattato come Ahmed Mansoor, l’attivista per i diritti umani che dal 2017 sta scontando, in uno stato inumano e degradante, una pena di dieci anni per le sue critiche nei confronti del governo emiratino.
Verso la confessione
Gli interrogatori duravano fino a quindici ore e con il passare del tempo si sono fatti sempre più aggressivi. «Mi dicevano che sapevano della mia ricerca, del mio lavoro. Mi hanno chiesto di rubare dei documenti dal ministero degli Esteri britannico ed è in quel momento che sono iniziati gli attacchi di panico», dice il ricercatore.
«Hanno iniziato a darmi delle medicine e gli interrogatori si sono fatti più aggressivi. Ho capito che era l’introduzione verso qualcos’altro. Mi hanno rinchiuso in una stanza. C’era del sangue per terra, sentivo la gente urlare di continuo. Era tutto organizzato per distruggere psicologicamente chi c’è dentro», racconta guardando il vuoto. Lo hanno talmente imbottito di medicinali che è stato ricoverato in ospedale. Ed è lì che ha tentato il suicidio.
La precaria difesa
Nel frattempo sua moglie è riuscita a trovare un avvocato, ma è stato inutile visto che una volta capito il caso decide di mollarlo. Per Matthew l’unico modo di uscire da quella situazione era firmare una confessione.
Dopo mesi di interrogatori, privazione del sonno e violazioni dei diritti umani decide di firmare. Solo a quel punto è riuscito a incontrare un rappresentante dell’ambasciata britannica.
«È stata una riunione di cinque minuti, il procuratore di stato era circondato dalle sue guardie armate. Quando i diplomatici mi hanno chiesto se fossi stato torturato li hanno fatto uscire con la forza. Non riuscivo a crederci».
Passano ancora le settimane e a fine ottobre il giovane ricercatore viene rilasciato su cauzione per due settimane. Scopre che il suo caso è su tutti i giornali britannici.
Sua moglie Daniela lo raggiunge nel paese, ha saputo che c’era un caso aperto per spionaggio nei suoi confronti soltanto dopo sei mesi dal suo fermo. Il resto dei giorni passa in maniera frenetica e convulsa.
Il 21 novembre un giudice lo condanna all’ergastolo ma dopo cinque giorni ottiene il perdono presidenziale, esibito come un gesto di favore da parte delle autorità emiratine a quelle britanniche. Finalmente, dopo sei mesi, il 26 novembre Matthew torna a casa.
Il processo in Regno Unito
Il rientro in Inghilterra non è stato facile. Il trauma è talmente profondo che Matthew non riesce neanche a uscire di casa per diversi anni. Inizia un percorso di terapia e di disintossicazione dagli antidepressivi. E inizia anche la sua battaglia personale per ottenere giustizia.
Tramite il parlamentare laburista Ben Bradshaw nel settembre del 2019 presenta un reclamo all’Ombudsman (il difensore civico) del parlamento inglese lamentando, nei confronti di Downing street, negligenze e inadempienze nel risolvere il suo caso.
In parallelo parte anche un processo legale presso la Corte suprema di Londra contro quattro ufficiali degli Emirati Arabi Uniti. Questi sono: Saqr Said al Naqbi, il procuratore generale di Abu Dhabi di quel tempo, Mohammed Khalfan al Rumaithi, il capo della polizia di Abu Dhabi quando Matthew era detenuto, Hamad Hammad al Shamsi, un ufficiale d’intelligence e infine il generale Ahmed Naser al Raisi, ispettore generale del ministero dell’Interno. Tutti nomi sconosciuti ai più tranne uno.
Al Raisi presidente Interpol
Il generale al Raisi è una figura di spicco della sicurezza nazionale emiratina. È entrato a far parte delle forze di polizia di Abu Dhabi nel 1980 ed è arrivato a occupare la posizione di Ispettore generale del ministero dell’Interno nel 2015. È a conoscenza dei 25 prigionieri di coscienza che stando al rapporto di Amnesty International 2020 sono detenuti nelle celle che, di fatto, sotto anche il suo controllo.
I suoi obiettivi sono ambiziosi e dopo una campagna elettorale in giro per l’Africa, l’Asia e l’Europa sta puntando alla carica di presidente dell’Interpol.
Le elezioni si terranno a porte chiuse dal 23 al 25 novembre a Istanbul e varie Ong hanno firmato appelli affinché al Raisi non diventi il prossimo presidente.
«Non ho mai incontrato il generale al Raisi. Ogni volta che mi spostavano dalla stanza venivo incappucciato. Ma lui è responsabile di chiunque venga fermato e detenuto in un edificio della polizia o della sicurezza nazionale. È impossibile non sapesse del mio caso», dice Matthew Hedges.
È dello stesso parere anche Ali Issa Ahmad, un cittadino britannico detenuto, a suo avviso, per aver indossato una maglietta del Qatar durante una partita della coppa d’Asia che si è tenuta il 22 gennaio a Dubai.
Fuori lo stadio è stato avvicinato da alcuni agenti della polizia in borghese che gli hanno chiesto come mai indossasse quella maglietta. Ne è nato un diverbio e Ali è stato rinchiuso in una cella dove dice di essere stato torturato per diversi giorni.
Come prova mostra le foto del suo corpo dopo il suo rilascio. Si vedono i tagli di un piccolo coltellino: i poliziotti hanno provato a tagliargli la bandiera del Qatar cucita sul petto della maglietta di calcio che indossava.
Per Ali il suo è un caso di discriminazione razziale acuito dai cattivi rapporti tra Emirati Arabi Uniti e Qatar. Nel 2019 i qatarini erano al centro dell’embargo imposto dagli altri paesi del golfo e dall’Egitto per via delle accuse di finanziare il terrorismo islamista.
«Sono stato un paio di settimane in una stazione di polizia a Sharja. Non ho avuto accesso a un avvocato e non ho potuto chiamare né la mia famiglia né l’ambasciata inglese», dice con la voce spezzata. «Per uscire da quell’incubo ho firmato un foglio in cui dichiaravo di essermi ferito da solo».
Ali alla fine se l’è cavata con una multa da pagare e una condanna per aver fatto «perdere tempo alla polizia».
Oggi è a Wolverhampton ma anche lui ha iniziato una causa contro gli ufficiali emiratini, tra questi c’è anche il generale al Raisi. «Non l’ho mai incontrato ma è lui che firma ogni documento, controlla ogni caso. Tutto passa attraverso le sue direttive, nessun agente di polizia può fare come vuole soprattutto in un paese del genere. Non ci posso credere che potrà diventare il prossimo presidente dell’Interpol. Chi viola i diritti umani non può avere una carica del genere».
La beffa
Una volta rientrato in Inghilterra Matthew ha scoperto che Alistair Burt, il ministro per il Medioriente in carica nel momento della sua detenzione, ha legami stretti con le istituzioni degli Emirati Arabi Uniti.
Una settimana dopo l’arresto di Hedges, Burt ha firmato un importante memorandum tra il governatorato di Dubai e i servizi di comunicazione del governo britannico con l’obiettivo di «scambiarsi buone pratiche e il know how sulla comunicazione governativa».
Nel dicembre del 2019 Burt, che appartiene ai tory, è stato nominato dall’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti di Londra come presidente onorario della Emirates society, un’associazione che si occupa di promuovere le relazioni e gli investimenti tra i due paesi. Ma non è finita qui. Secondo quanto rivelato dal Daily Mail Alistair Burt è indagato per aver fatto lobbying in favore del generale al Raisi per la presidenza dell’Interpol.
Una serie di eventi a cui Matthew stenta a crederci e sui cui sta cercando di indagare con i suoi avvocati: «Per quanto è doloroso ho deciso di continuare questa battaglia legale perché io ho l’opportunità di farlo a differenza di chi non ce l’ha. È una responsabilità che sento addosso».
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