La sua prima, lunga e coreografica visita ufficiale nella “Cina capital-comunista di Xi Jinping”, sotto la quale – aveva avvertito apocalittica in campagna elettorale – «l’Europa rischia di finire in posizione di subordinazione», ha dato un po’ di respiro a Giorgia Meloni, tenendola lontana per qualche giorno dalle bacchettate dell’Unione europea e dalle tribolazioni nella coalizione di governo a Roma.

Tuttavia è evidente che, a quasi due anni dall’insediamento a palazzo Chigi, la presidente del Consiglio ha reso ancora meno rilevante l’Italia a Bruxelles, e ha dovuto arrendersi alla realtà di una Cina diventata un partner imprescindibile, al quale è andata a chiedere investimenti produttivi in Italia e un riequilibrio della bilancia commerciale.

Strappo da ricucire

Cancellato alla vigilia della presidenza italiana del G7 il memorandum sulla Via della Seta sottoscritto dal Conte I (l’Italia era l’unico dei sette “grandi” a farne parte), in questo 2024 diplomazia e ministri si sono impegnati a ricucire lo strappo. E così in pochi mesi a Pechino hanno visto arrivare il responsabile degli esteri Antonio Tajani, quello del commercio Adolfo Urso, poi Meloni e, infine, a novembre, sarà la volta del presidente Sergio Mattarella.

Ieri Meloni – dopo aver visto domenica il premier Li Qiang – ha incontrato Xi Jinping. Il faccia a faccia col presidente cinese è stato soprattutto l’occasione per fare il punto sulle grandi questioni globali. «C’è una insicurezza crescente a livello internazionale e io penso che la Cina sia inevitabilmente un interlocutore molto importante per affrontare tutte queste dinamiche, facendolo a partire dai rispettivi punti di vista per ragionare insieme di come garantire stabilità, pace, un interscambio libero», ha dichiarato Meloni.

La presidente del Consiglio si è proposta a Xi in qualche modo come “ponte” tra la Cina e l’Ue che ha adottato le politiche di “de-risking”: «Penso che l’Italia possa avere un ruolo importante anche per quello che riguarda le relazioni con l'Unione europea», ha sostenuto Meloni, «nel tentativo di creare rapporti commerciali che siano il più possibile equilibrati».

Meloni ha annunciato un “piano triennale d’azione” (che dunque dovrebbe coincidere con la durata dell’attuale legislatura) per «sperimentare nuove forme di cooperazione».

Durante il business forum che si è svolto domenica e lunedì nella Grande sala del popolo di piazza Tienanmen la leader di Fratelli d’Italia ha firmato il memorandum di cooperazione industriale tra i rispettivi ministeri che era stato predisposto nei mesi scorsi, presentato come un passo significativo che «comprende ora settori industriali strategici come la mobilità elettrica e le rinnovabili». Nessun annuncio è arrivato sull’investitore cinese che il governo vorrebbe attirare in Italia nel settore degli veicoli elettrici.

Un alleato a Bruxelles

Il braccio di ferro sui nuovi dazi dell’Unione europea sulle auto elettriche (Ev) importate dalla Cina è tuttora in corso. Secondo quanto riportato dalla Reuters l’Italia ha votato “sì” agli aumenti provvisori (fino al 37,6 per cento) approvati il 4 luglio scorso. Ma la decisione definitiva in seno all’Ue verrà presa entro novembre. E, il giorno dell’arrivo a Pechino di Meloni, i media locali hanno sottolineato che, in vista di quell’appuntamento, «qualsiasi passo compiuto verso una comunicazione pragmatica è encomiabile e prezioso».

Nella visita a Pechino con la quale ha preceduto la sua collega di partito, il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, aveva dichiarato che l’Italia è aperta a una «soluzione negoziale», cioè a una riduzione di tali misure compensative, che, una volta approvate definitivamente, resteranno in vigore cinque anni.

Per la Cina quella degli Ev è un’industria strategica, uno dei “tre nuovi” (assieme alle batterie e agli impianti fotovoltaici) che hanno sostituito sul podio dei principali prodotti di esportazione i “tre vecchi”, ovvero, abbigliamento, elettrodomestici, mobili. L’Italia potrebbe rivelarsi decisiva, aggiungendosi ai paesi contrari (Germania, Svezia, Finlandia), ai quali vanno aggiunti quelli “tiepidi”, e ridimensionando la portata delle misure protezionistiche dell’Ue sponsorizzate soprattutto dalla Francia e dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.

A Pechino è piaciuta anche la notizia – riportata nei giorni scorsi da Bloomberg – secondo cui il ministro dell’Economia, il leghista Giancarlo Giorgetti, si è espresso contro eventuali «azioni unilaterali» del G7 che potrebbero ostacolare gli scambi globali, sottolineando la necessità di proteggere il commercio internazionale. Una presa di posizione che il giornale governativo Global Times ha interpretato come «un segnale positivo dell’impegno dell’Italia nel mantenere e rafforzare le relazioni economiche e commerciali con la Cina».

I media governativi sostengono che «il progresso economico dell’Ue è strettamente legato a quello della Cina», ed è per questo che «il de-risking dell’Ue suscita divisioni e si trova di fronte a un dilemma, con opinioni diverse tra i suoi stati membri a causa di interessi diversi».

La strategia di Pechino è quella di depotenziare le politiche di “de-risking” – ovvero di riduzione delle dipendenze dalla Cina – lanciate da von der Leyen in coordinamento con Washington. E in un’Ue più frammentata e con Meloni in rotta di collisione con la presidente della Commissione, l’Italia a caccia di investimenti produttivi può di certo tornare utile a Pechino.

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