Ci volevano alcuni ordigni pericolosamente vicini alla postazione dei caschi blu italiani per smuovere il nostro governo, presidente del Consiglio Giorgia Meloni in testa, ministro della Difesa Guido Crosetto di supporto, perché alzassero finalmente una voce robusta contro Benjamin Netanyahu.

Il doppiopesismo

Non si sa se essere più rallegrati o più indignati per il doppiopesismo e, ancora peggio, la doppia morale che è insita in tale comportamento. I massacri continui di civili a Gaza e in Libano, le bombe su ospedali, tendopoli, chiese, moschee, croce rossa, avevano prodotto timidi belati di palazzo Chigi per non disturbare, non troppo, il manovratore, in fondo un nostro alleato, l'avamposto di occidente in terra infedele e dunque mondato da ogni peccato perché, nella vulgata della destra, sta combattendo anche per noi.

Aveva superarato, il premier d'Israele, un bel po' di linee rosse, violato leggi internazionali, diritti civili e umanitari. Se ha potuto continuare indisturbato era perché, forse con suo stesso stupore, nessuno osava fermarlo e dunque poteva alzare la posta, in un gioco d'azzardo dove era sempre il banco a vincere.

Poi “l'incidente” dei caschi blu, seguito dalla richiesta esplicita che si tolgano dai piedi, che non interferiscano nelle operazioni di Tsahal teso alla rioccupazione del sud del Libano, in netto contrasto con gli accordi di cessate il fuoco del 2006 sottoscritto anche dallo Stato ebraico (e per onore del vero va ricordato che anche Hezbollah non ha rispettato i patti continuando a riarmarsi e impedendo che l'esercito regolare libanese prendesse possesso delle postazioni verso il confine sud del Paese).

Sovranismi in conflitto

È stato allora che sono entrati in conflitto due sovranismi. Quello di Israele, desideroso di ribadire il concetto di voler essere padrone a casa propria e anche nella casa altrui; e quello dell'Italia che ovviamente tiene all'incolumità di soldati mandati in quella terra di guerra strisciante per cercare di mantenere un barlume di tregua se non proprio di pace.

L'internazionale sovranista ha nella propria essenza il tallone d'Achille, funziona solo fino a quando non divergono i rispettivi interessi. Così Guido Crosetto alza la voce e usa il termine forte di «crimini di guerra».

Giorgia Meloni telefona a Netanyahu e tiene la schiena dritta, minacciandolo persino di non appoggiarlo più nel consesso delle Nazioni Unite. Comunque troppo poco e troppo tardi perché sarà impossibile fermare la macchina bellica ormai accesa e che prevede soltanto due opzioni: i caschi blu mantengono le posizioni, magari rintanati come topi nei bunker e con il rischio di essere bersagli perché c'è sempre un ordigno poco intelligente; il Palazzo di Vetro constata l'impossibilità di continuare lna missione e li ritira. In entrambi i casi sancendo la propria impotenza.

È ormai palmare che Netanyahu non è disposto a fermarsi davanti a qualunque ostacolo, non c'è trattativa che possa portare sulla via della pace. L'ultimatum ai militari dell'Onu ha fatto cascare definitivamente la maschera, provocando un cambio di clima in una parte dell' opinione pubblica schierata con Israele oltre che nelle cancellerie anche più pazienti.

A cominciare da quelle che hanno uomini a rischio. Lo spagnolo Pedro Sànchez dice esplicitamente che è stato violato il diritto internazionale; il francese Emmanuel Macron propone di bloccare l'invio di armi a Israele. Giorgia Meloni si ferma un passo prima ma fa comunque la faccia feroce perché, trovandosi in buona compagnia, si dà finalmente il coraggio che sinora non ha avuto.

La destra italiana e Israele

Sinora aveva seguito la linea che la destra ha scelto, con un repentino cambio di rotta, da una ventina d'anni, dalla visita di Gianfranco Fini del 2003 in Israele quando aveva condannato senza se e senza ma il fascismo e il nazismo, messo in guardia dai pericoli dell'antisemitismo, addirittura giustificato la costruzione del muro di separazione lungo più di ottocento chilometri e vergato con parole chiare sul libro della memoria di Yad Vaschem il significato della sua missione: «L'orrore della Shoah impone di tramandare la memoria affinché non si ripeta più, neanche per un solo essere umano, quello che è accaduto agli ebrei ad opera dei nazisti».

Prima di questo gesto di riconciliazione la destra italiana era al minimo scissa tra due tendenze opposte, una filo-palestinese, in una sorta di giustificazionismo obliquo perché nostalgica dei regimi genocidi di riferimento, e una filo-israeliana.

Da Fini in poi era nata una corrispondenza di amorosi sensi con Israele, perseguita anche da Giorgia Meloni sino al punto di rottura provocato dal timore dell'incolumità per gli italiani. Una posizione sacrosanta se non si sentisse un sottofondo di fastidio per non essersi spesa quando toccava ad altri e in maniera ben più tragica. Ma già, prima gli italiani.

La domanda ora è: che fare? È chiaro che i nostri caschi blu si trovano in una trappola da cui è difficile uscire. Andarsene non pare un'opzione sia perché darebbero l'impressione di rispondere agli ordini di Netanyahu e non a quelli del Consiglio di Sicurezza, sia perché si sentirebbero di tradire quel poco che ancora sono in grado di fare per proteggere la popolazione civile, frapponendosi ai belligeranti seppur cum grano salis o mettendo a disposizione ricoveri sicuri per i più inermi quando avanzeranno i carrarmati israeliani.

Restare li espone a rischi evidenti, prova ne siano gli ordigni esplosivi incendiari trovati ieri e posizionati sulla strada che conduce a una loro base operativa.

C'è una unanimità di consensi, da parte dei Paesi che forniscono soldati all'Unifil, perché la missione continui. È il caso di aggiungere, come si usa per i referti medici, “salvo complicazioni”.

Da almeno quarant'anni il Libano è fonte di lutti per gli eserciti che si sono susseguiti nel tentativo di dare al Paese dei cedri un minimo di stabilità. La storia induce al pessimismo. Speriamo che sia smentita.

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