È passato un anno da quella drammatica carneficina a opera di Hamas che ha sconvolto Israele e il mondo e che ha anche dato l’innesco a una reazione sproporzionata dello stato ebraico a Gaza, poi in Cisgiordania e ora in Libano per arrivare all’Iran. Tutti si aspettavano una risposta molto dura ed efficace, in perfetto stile israeliano. Pochi, però, immaginavano un anno di guerra crescente, uno stato di tensione probabilmente mai così grave nella storia di Israele dalla sua nascita, nel 1948, a oggi, e una concreta possibilità che il conflitto diventi a breve giro regionale.

In questi dodici mesi, è cambiata la posizione dell’opinione pubblica israeliana rispetto al governo Netanyahu? L’avanzata senza ostacoli militari né morali a Gaza a quali risultati sta conducendo? Per approfondire questi e altri temi, Domani si è rivolto a Meron Rapoport, giornalista e intellettuale israeliano tra i più noti, ex caporedattore di Haaretz, attivista politico e fondatore del movimento A Land for All, attualmente editorialista di +972 Magazine, rivista online israelo-palestinese.

È stato un anno di guerra ma anche di dibattito interno ad Israele. Cosa è cambiato nella percezione delle scelte del governo nell’opinione pubblica? Se si votasse oggi, secondo lei, come andrebbero le cose?

Se guardo i sondaggi noto che, malgrado i successi recenti in Libano e l’uccisione di Nasrallah e della leadership di Hezbollah, il governo è molto lontano dalla maggioranza dei seggi, può contare al massimo su 53 sui 120 della Knesset. È vero che il Likud si è rafforzato, ma a scapito di altri partiti della coalizione, e comunque nel complesso c’è una perdita di consensi se pensiamo alle ultime elezioni. C’è una metà degli israeliani che prova profonda ostilità nei confronti di Netanyahu, che lo ritiene un serio pericolo per lo stato, che sta portando Israele alla distruzione e che lui agisce per proprio interesse politico e personale piuttosto che per il bene del paese. Questa attitudine verso il premier non è cambiata neanche dopo le operazioni anti Hezbollah o il Libano. Paradossalmente, però, credo che la maggior parte della società abbia accettato la filosofia di Netanyahu, e cioè che l’unico modo di agire è la forza militare, qui ormai la diplomazia è quasi disprezzata. È questa la clamorosa contraddizione da noi al momento, la teoria politica di Netanyahu ha vinto mentre lui stesso è odiato da una fetta significativa della popolazione.

Le operazioni in Libano, stanno cambiando equilibri e consensi?

Dopo il Libano si può dire che il consenso verso il governo sia maggiore rispetto a Gaza. Per Gaza molti israeliani vorrebbero la fine della guerra, soprattutto per gli ostaggi, e sono pronti a un cessate il fuoco lungo. Sulla questione del Libano anche il centro-sinistra è in linea con la strategia adottata, e recentemente Yair Golan, il nuovo leader dei laburisti, si è pronunciato a favore dell’occupazione del sud. In questo senso, la teoria di una guerra continua ha vinto. Non dimentichiamo, però, che la popolarità di Netanyahu prima del Libano era scesa drammaticamente. Ci sono state manifestazioni imponenti come mai prima nella storia di Israele, con centinaia di migliaia di persone che sfilavano per contestare ferocemente Netanyahu e il governo. Dal palco c’era chi lo chiamava senza mezzi termini «assassino» perché rifiutava un accordo per la fine della guerra e la liberazione degli ostaggi. Alla base di questa opposizione, oltre agli ostaggi, c’era anche una stanchezza generale della gran parte della società israeliana. Col Libano il consenso si è un po’ ripreso, ma già sono otto i soldati morti nelle operazioni, se il numero aumenta, anche su questo cambierà l’atteggiamento della politica e della società.

Secondo lei siamo sull’orlo di una guerra totale? Cosa secondo lei può scongiurarla e cosa può invece favorirla?

Siamo molto molto vicini a una guerra regionale. Dobbiamo ricordare che dal 1973 Israele non ha più affrontato uno stato sovrano, ma solo milizie, questa volta le prospettive cambiano. L’attacco missilistico di alcuni giorni fa operato dall’Iran ci ha sorpreso perché tutti pensavano che non avrebbe reagito e che si sarebbe limitato a dare aiuto a Hezbollah. Purtroppo, dopo l’attacco, ritengo che non ci sia speranza che Israele non risponda duramente, così come dura sarà la reazione di Teheran. Poi tutto può succedere perché l’Iran ha appoggi militari in Iraq, Yemen e altrove. L’unica forza che potrebbe impedire l’escalation sarebbe l’America, che però, a un mese scarso dalle elezioni, non ha né la volontà né la forza di dire a Israele basta. L’America è già molto indebolita e la leadership sa che fare pressione su Israele a questo punto potrebbe spostare quelle decine di migliaia di voti decisivi negli stati più indecisi. Un rischio che non vuole prendere nessuno. E poi, supponiamo che decidessero di assumerselo, non è assolutamente detto che Israele accetterebbe.

Dal 7 ottobre in poi è stato un succedersi di operazioni militari devastanti che non sembrano incontrare ostacoli e danno l’impressione che Israele non aspettasse altro per chiudere una serie di conti in sospeso…

In Israele vari esponenti politici lo dicono apertamente, c’è chi parla di tempi miracolosi perché, in un certo senso, dopo il 7 ottobre è permesso tutto, Hamas, Cisgiordania, Libano, Iran e forse oltre. L’altra faccia di questa medaglia è che ormai Israele sotto Netanyahu ha rinunciato totalmente a una possibilità di agire sul livello diplomatico e crede solo nell’uso della forza. Peccato, però, che così non si vince. Israele ha indebolito certamente Hamas, ma anche dopo la carneficina a Gaza non l’ha sconfitta definitivamente, gli ostaggi sono ancora lì, Hezbollah è senza leadership ma non si può dire annientato. Ma poi, a che prezzo tutto questo? I nostri bambini nel nord non vanno a scuola, centinaia di migliaia di israeliani vivono costantemente sotto la minaccia di missili e bombe.

I movimenti pacifisti e l’associazionismo israelo-palestinese che fine stanno facendo? E nel mainstream mediatico c’è spazio per loro?

Nessuno spazio nel mainstream, anzi, concederglielo è sostanzialmente proibito. A chi dissente è vietato parlare, agli arabo-israeliani, il 20 per cento della popolazione, è totalmente vietato esprimersi, e il rischio, se dicono qualcosa di ostile, è l’arresto. In realtà la sensazione è che l’opposizione alla guerra stia guadagnando consenso da noi. Due mesi fa, per esempio, c’è stato un raduno di movimenti anti guerra a cui hanno partecipato decine di migliaia di israeliani, un successo storico. C’è tanta gente che capisce che non possiamo vincere e che i palestinesi non andranno da nessuna parte, ma ora il mainstream sia politico che mediatico non gli dà nessuno spazio.

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