-
L’Ue ha raggiunto un’intesa sulla gestione comune dei flussi. Ci sono alcuni piccoli progressi, ma la logica securitaria non è cambiata.
-
Le distanze tra i paesi europei su come rispondere alla sfida migratoria restano ancora incolmabili, ma nessuno vuole nuovi arrivi irregolari sul proprio territorio: questa è l’unica cosa su cui i membri sono d’accordo.
-
Il testo fa parte del numero di Scenari: "La grande migrazione", in edicola e in digitale dal 22 luglio.
Tra le conseguenze drammatiche del conflitto scoppiato nell’Europa orientale va registrato l’effetto indiretto sulla crisi alimentare globale. L’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, causato in parte dall’incremento dei costi dell’energia e dei fertilizzanti, alimentava l’insicurezza alimentare già prima del 24 febbraio. Lo shock geopolitico, tuttavia, ha spinto i prezzi ancora più in alto e sta sollevando lo spettro di carenze in medio oriente e nord Africa, tra le principali destinazioni delle esportazioni russe e ucraine di cereali.
Ad oggi è complicato fare previsioni, ma alcuni elementi destano preoccupazione nel contesto internazionale. Il conflitto sta colpendo direttamente le fasce più povere delle popolazioni, quelle che già vivono una condizione di stress. Questo – insieme ad altri fattori, come l’instabilità politica dei paesi di origine – porterà ulteriore sofferenza e, soprattutto, migrazioni forzate.
Infatti, se l’Europa ha avuto la possibilità di accedere a differenti mercati per il settore agroalimentare, ad altre regioni questa alternativa è stata preclusa proprio a causa degli alti prezzi. Mentre grano e cereali – il cui costo è salito vertiginosamente – sono tuttora bloccati nei porti del mar Nero, i governi africani – che già fronteggiavano un’inflazione causata da pandemia, cambiamenti climatici e cattiva politica – tentano di contenere il più possibile la crisi, nonostante la scarsità di riserve per sostenere il potere d’acquisto dei cittadini e sovvenzionare i tanti prodotti. In tale contesto, il rischio di un netto aumento dei flussi migratori verso l’Europa è molto più che probabile.
L’uso dei flussi migratori
L’aumento dell’immigrazione potrebbe rispondere a una precisa strategia della Russia finalizzata a destabilizzare l’Europa. Una “guerra ibrida” basata sulla logica che dopo il collasso delle forniture di grano, la gente affamata tenterà la fuga in Europa, come già successo nel recente passato. Una sorta di ricatto, che evidenzia, con tutta la sua assurdità, la debolezza del sistema alimentare globale e lo stato di soggetto ricattabile dell’Europa, portato avanti bloccando le esportazioni e che si risolverebbe con la fine della guerra e dell’isolamento russo.
Anche la Nato, nel suo nuovo Concetto strategico, ha incluso la migrazione di massa irregolare tra le “minacce ibride” che le potenze ostili possono utilizzare per minare la stabilità dei paesi membri del Patto atlantico. Infatti, l’uso dei flussi migratori come strumento di “aggressione o intimidazione” nei confronti del Vecchio continente non è nuovo.
Già nel 2010 l’ormai defunto leader libico Moammar Gheddafi chiedeva alla controparte europea 5 miliardi di euro all’anno per fermare la migrazione illegale africana. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha ripetutamente minacciato di inondare l’Ue con i “suoi rifugiati” e nel 2016 ha raggiunto un accordo con Bruxelles per fermare i flussi in cambio di 6 miliardi di euro in aiuti. Altri stati hanno utilizzato le stesse tecniche intimidatorie con obiettivi molto più ristretti. Le autorità marocchine nel recente passato hanno incoraggiato migliaia di migranti a nuotare intorno a una recinzione di confine ed entrare a Ceuta, enclave spagnola su territorio marocchino, in risposta ad alcuni atteggiamenti di Madrid ritenuti ostili da Rabat. Ancora, lo scorso autunno sul fronte terrestre orientale, la crisi umanitaria “orchestrata” da Alexander Lukaschenko aveva come obiettivo quello di turbare, umiliare e seminare divisioni all’interno dell’Ue dopo il mancato riconoscimento da parte di Bruxelles della vittoria del presidente bielorusso alle elezioni presidenziali del 2020.
Ciò solleva la vexata quaestio se l’Unione europea sia pronta a far fronte a una nuova ondata di arrivi irregolari, nell’eventualità che le ipotesi avanzate diventino realtà.
Strategia europea
La risposta dell’Ue alla crisi verificatasi all’indomani delle “rivolte arabe” è stata una strategia che fosse in grado di rilanciare la collaborazione con i paesi della sponda sud del Mediterraneo, inaugurando un nuovo dialogo su migrazione, mobilità e sicurezza. Lo spirito della condizionalità era l’elemento cardine: offrire facilitazioni nel movimento di alcune fasce di persone in cambio di un controllo più severo dei paesi di origine sui movimenti delle fasce marginali e dei migranti irregolari.
Attraverso la politica di vicinato, Bruxelles ha posto enfasi sulla responsabilità di attrarre nella sua orbita egemonica i paesi vicini, favorendo la diffusione di democrazia, stato di diritto e sviluppo socioeconomico. Al contempo, questa politica acquisiva sfumature securitarie: i vicini diventano paesi ben governati, ma soprattutto capaci di arginare la diffusione di pericoli attraverso le frontiere. Tale strategia è diventata lo strumento attraverso il quale l’Europa ha trasformato i suoi problemi di sicurezza in una questione di ordine regionale. In altre parole, una forma di “gestione dall’esterno” delle politiche di sicurezza e del controllo delle migrazioni.
In sostanza, lo scopo era produrre uno spazio attraverso il quale si è cercato (e lo si fa tuttora) di attirare a sé una serie di spazi altrui percepiti come problematici e disordinati. In quest’ottica si è collocata anche la creazione di Frontex, l’Agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne: strumento di una geopolitica che aveva come obiettivo non solo una progressiva espansione del confine europeo sino a inglobare uno spazio extraterritoriale, ma anche la creazione di una struttura istituzionale di gestione della frontiera separata dai soggetti che le hanno dato vita.
Evidentemente, il problema nasce nel momento in cui si cerca di coordinare e armonizzare tecniche e punti di vista differenti in materia di gestione delle frontiere e ordinamenti legali che variano da paese a paese e che causano molteplici difficoltà nella creazione di pratiche omogenee.
Politiche insufficienti
La geografia è solo uno dei problemi che pone l’Europa in una condizione di difficoltà. L’Ue è stata costruita sul multilateralismo e sui mercati liberi e aperti e poi ha cercato di estendere il modello al resto del mondo. Un’ideologia, oltre che un’opportunità, che ha legato i paesi membri al mondo, ma, al contempo, li ha resi più vulnerabili.
Ad ogni modo, Bruxelles dovrebbe essere più assertiva sul piano della politica estera, promuovendo una maggiore collaborazione tra gli stati membri nel campo della sicurezza e della difesa comune. Ma è sul dossier migratorio che si necessita un cambio di marcia, con il resto del 2022 che potrebbe registrare un nuovo incremento dei flussi.
Alcuni passi avanti sono già stati fatti (soprattutto in termini di risorse) ma siamo ancora ben lontani dalla creazione di una vera politica condivisa. Risulta del tutto evidente che col sistema promosso dal Patto su migrazioni e asilo l’Ue rinunci ad affrontare la questione principale per risolvere in gran parte i risvolti più drammatici legati ai flussi migratori, ovvero l’ampliamento di canali di migrazione legale. Inoltre, col documento si punta a rafforzare ulteriormente le frontiere esterne, aumentando le risorse di Frontex, utilizzare maggiormente la carta dei rimpatri e rafforzare la cooperazione tramite finanziamenti e condizionalità con i paesi terzi di origine e transito.
Nelle scorse settimane è stata raggiunta un’intesa tra i governi europei sulla gestione comune dei flussi: un meccanismo solidale per far fronte agli arrivi; tuttavia, il documento non prevede una redistribuzione obbligatoria dei migranti, ma una risposta su base volontaria. In pratica, quei paesi non disponibili all’accoglienza dovranno versare un contributo che sarà girato ai paesi di primo ingresso.
Malgrado questi piccoli progressi, la logica securitaria e di chiusura di fondo, sebbene con qualche modifica, non appare mutata. Le distanze tra i paesi europei su come rispondere alla sfida migratoria restano ancora incolmabili, oltre al fatto che, in un’Europa in cui la solidarietà non sembra essere di casa – anche dopo l’inaspettata (positiva) reazione nel caso dei profughi ucraini –, l’unico punto che sembra trovare d’accordo tutti è la riduzione degli arrivi irregolari sul proprio territorio.
© Riproduzione riservata