Da Macellaio di Gaza a Liberatore dell’Iran? Ricorrendo l’anniversario del 7 ottobre Bibi Netanyahu appare in scena nel ruolo prediletto di Colui che cambierà il Medio Oriente. E ormai non v’è dubbio che lo stia cambiando davvero, anche se non è sicuro che tutto quel suo bombardare, invadere, sottomettere produca i sommovimenti perfetti lodati dai media italiani.

E anzi è possibile che il risultato passerà alla storia come uno tra i più catastrofici esempi di eterogenesi dei fini, genere nel quale Israele è specialista.

La guerra permanente

Per stare al Libano: è la sesta volta che Israele l’invade, e in ciascuna delle spedizioni precedenti (la prima nel 1978, l’ultima nel 2006) non è riuscita a debellare i nemici, semmai li ha indotti a riorganizzarsi in altra forma.

Nulla suggerisce che stavolta l’esercito israeliano otterrà un esito diverso. Se pure riuscisse a desertificare il sud del Paese, poi si troverebbe invischiato in una guerra di attrito permanente e non potrebbe evitare che Hezbollah continui a lanciare missili sulle cittadine israeliane a ridosso del confine.

Allo stesso modo è del tutto improbabile che con i raid della sua aviazione sull’Iran Netanyahu riesca a causare la crisi terminale del regime degli ayatollah, l’obiettivo che ha manifestato agli iraniani nell suo discorso all’Onu. Però l’aver moltiplicato i fronti è stato per lui un buon affare.

Finora gli ha permesso di spostare l’attenzione internazionale lontano dai Territori occupati (non solo Gaza ma anche il West Bank, dove l’aviazione israeliana adesso bombarda palazzi, ciò che non era mai successo in passato); gli ha fruttato un aumento verticale del consenso interno (oggi è di gran lunga il politico israeliano più popolare); e ha tolto la scena alle disperate famiglie degli ostaggi, di cui continua a ignorare le suppliche d’un cessate-il-fuoco.

L’impotenza occidentale

E adesso Netanyahu è nella condizione di premere sui governi occidentali, quelli che in teoria dovevano premere su di lui. Uno smodato attacco israeliano all’Iran infiammerebbe il prezzo del petrolio, le piazze arabe e il mondo musulmano.

I Democrats americani hanno un motivo ulteriore per temere: se a tre settimane dalle presidenziali il governo israeliano mostrasse la politica estera Usa nella sua patetica impotenza, chi se ne avvantaggerebbe sarebbe l’amico di Bibi, Trump.

Così adesso Biden tenta di concordare la rappresaglia contro Teheran; in cambio promette a Israele assistenza tecnica e avallo politico. Ma se un governicchio mediorientale può far ballare l’Imperatore alla propria musica, che cosa è rimasto dell’Impero?

L’andirivieni in Medio Oriente di inviati dell’amministrazione Usa ormai è soprattutto teatro. Però anche il trionfalismo di Netanyahu non ha un fondamento reale. Mentre il futuro Liberatore dell’Iran si proclamava vincitore davanti ai banchi deserti dell’Assemblea generale dell’Onu, Moodys’ ha mostrato la realtà della vittoria declassando il rating di Israele.

Ora è BAA1 con outlook negativo (da A2). L’Italia sta peggio (BAA3) ma non deve trovare capitali per finanziare due guerre costate finora una fortuna (67 miliardi di dollari) ancorché allo stato inconcludenti.

Il governo israeliano, nota Moody’s, non è in grado di produrre «una exit-strategy che ristabilisca un livello di stabilità e di sicurezza sul quale possano fare affidamento l’economia e gli investimenti».

Non si vede un’exit-strategy e neppure una strategia, se non quella di sparare in ogni direzione aspettando Trump. La sintesi l’ha offerta Ayman Safadi, ministro degli Esteri della Giordania: «Domandate a qualsiasi governante israeliano quale sia il loro piano di pace: non avrete risposta».

Nessun piano di pace, però un obiettivo irrinunciabile: evitare uno stato palestinese. Dunque nessun cessate-il-fuoco se comportasse l’obbligo per Israele di lasciare il nord di Gaza, perché in quel caso la Striscia diventerebbe il primo guscio di una Palestina futuribile. Da questo punto fermo comincia la concatenazione di azioni e reazioni che ha chiamato in scena l’altro gorilla dell’area, il conglomerato Iran-Hezbollah-Houthi.

Un ottimista potrebbe sperare che lo scontro sfianchi l’uno e gli altri. Che col tempo l’elettorato israeliano finisca per accettare il principio di realtà. Che gli sciiti trovino conveniente sganciarsi dal patronage iraniano. Che gli iraniani ne approfittino per liberarsi degli ayatollah e i siriani per togliersi dai piedi Assad e la sua gang. Ma quel che ora si mostra è semmai un deprimente domino di conflitti in espansione; e, alle spalle delle prime linee, il consolidarsi di due opposti tribalismi global.

Da una parte un’opinione pubblica panaraba e/o panislamica che non riesce a fare i conti con l’infamia di Hamas, avverte l’inadeguatezza dei propri governanti e sta cercando nuovi punti internazionali di riferimento (la Turchia, innanzitutto).

Dall’altra la grande tribù “bianca” in cui sembrano intendersi perfettamente il governo Netanyahu, la destra trumpiana e le destre dure europee (Lega inclusa). In mezzo, i balbettii di un’Europa indecisa a tutto, di conseguenza esposta alla percezione che la vuole inconsistente o subdola.

L’annessione continua

Eppure mai come ora il percorso verso una pace appare lineare, nitido come la questione pregiudiziale, quella da cui tutto muove (e se una conferenza internazionale finalmente l’affrontasse non avrebbe difficoltà a dirimerla). Si tratta di stabilire se uno stato può “acquisire” territori invocando il diritto storico oppure deve rinunciare perché così chiedono regole norme e leggi internazionali che cercano di porre un freno all’homo hominis lupus.

In luglio la Corte Onu (Icj) ha opinato che Israele non può annettersi Territori occupati. La destra israeliana s’è sdegnata e l’esercito ha vendicato l’affronto con violenze spropositate su tre città del West Bank.

A questo punto è chiaro che l’eventuale rinsavimento della destra israeliana dovrà passare inevitabilmente per la rinuncia a molta parte dei Territori occupati. Ma come entrare nella fortezza mentale di gente convinta che il West Bank sia giudaico da sempre? Col dialogo, come si racconta la nostra diplomazia? Mah.

Certo, potremmo far presente che se governa il diritto storico allora ci siamo anche noi. Roma. Dopotutto furono i Romani a fondare città del West Bank come l’attuale Nablus. Le fondarono e ci vissero per secoli. Non erano galantuomini, i legionari della Decima Fretensis repressero le rivolte giudaiche con massacri, ma non si può negare che quegli “acts of genocide”, come li chiamiamo ora, nell’area non sembrano passati di moda.

Se dunque la discendenza fonda la sovranità, potremmo scoprire anche noi qualche motivo per pretendere. Tutto questo suona folle? Lo è. Ma non è più folle che spacciare il West Bank per «la patria storica» degli israeliani, come la racconta Netanyahu; o comprovare le tesi del premier con quanto è scritto nella Bibbia, testo certo affascinante ma, se valutato come fonte storica – lo confermano i nostri archeologi – attendibile quanto Topolino.

Ma si riconosca a Netanyahu almeno questo merito: ci permette di riconoscere la vera essenza di quel rauco Occidente che confida nell’israeliano per tornare al passato. Al dio degli eserciti; alle tribù e ai capitribù; alle verità incontrovertibili dei sacri testi; alla storia come profezia.

Se questa è l’alternativa, apprezzeremo perfino il nostro miserrimo progressismo, non fosse altro perché quel “progress” almeno tenta di guardare avanti, non inverte la direzione del tempo, non ci risucchia indietro nel gorgo dei secoli.

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