- La doppia assegnazione delle fasi finali dei mondiali avvenuta nel dicembre del 2010 ha segnato la definitiva svolta della Fifa nella direzione della post-democrazia. Fin lì nel dopoguerra, sia pure in modo del tutto casuale, la scelte della Fifa avevano privilegiato soltanto paesi democratici.
- Ospitare una grande manifestazione sportiva significa porsi al centro della scena comunicativa globale e dimostrare di saperci stare, oltre a veicolare i propri valori e i propri usi e costumi.
- L’assegnazione ai due paesi risale a una fase in cui pareva che a salvare le finanze del calcio dovessero essere i denari degli oligarchi e quelli degli emiri. Da allora le cose non sono più cambiate. Questo articolo è un estratto dal nuovo numero di Scenari: “Il grande gioco”, in edicola e in digitale dal 18 novembre. Iscriviti alla newsletter per ricevere aggiornamenti sulle prossime uscite.
«Dopo Russia e Qatar toccherà alla Corea del nord». La foto di questa scritta su un muro di una località imprecisata ha fatto il giro del web. Sintetizza efficacemente il senso della svolta post-democratica che la Fifa ha impresso al suo modo di governare il calcio a partire da una data precisa: il 2 dicembre 2010.
Quel giorno l’esecutivo della confederazione calcistica mondiale, radunato a Zurigo, prende una decisione inusuale assegnando due mondiali in un colpo solo. E partendo da questo aspetto vengono sottolineati altri elementi di novità legati alla doppia assegnazione: la prima fase finale dei mondiali assegnata a un paese dell’est europeo e la prima fase finale dei mondiali assegnata a un paese della penisola araba. Ma nessuno che metta in evidenza un dato cruciale della vicenda: i paesi scelti per assegnare le due edizioni sono distanti da standard accettabili di democrazia.
Da una parte c’è la democratura putiniana, che di lì a poco avrebbe mostrato il suo volto aggressivo anche sul piano internazionale. Dall’altra c’è un emirato che sceglie di compiere la modernizzazione come si trattasse di un percorso modulare: apertura in termini di sviluppo economico e consumi, marcata chiusura in merito a usi, costumi e soprattutto diritti della persona.
Fino a quel giorno di dicembre 2010, durante il secondo dopoguerra, non era mai successo che una fase finale dei mondiali venisse assegnata a un paese di non maturo sviluppo democratico. E in questo senso non fanno eccezione nemmeno i mondiali di Argentina 1978, disputati nel pieno della dittatura militare, ma assegnati prima del golpe dei generali. Sarebbe esagerato sostenere che fino al 2 dicembre 2010 la Fifa sia stata intransigente in termini di regime democratico dei paesi ospitanti, per cessare di esserlo da quel momento in poi. Più probabile che questa preferenza per i paesi democratici sia stata in passato frutto di causalità.
Si può dire invece con certezza che dopo la doppia assegnazione di dodici anni fa l’ultimo argine sia caduto. Con effetti a cascata su tutto il mondo del calcio, che nel frattempo avrebbe perso la legittimità morale e politica in seguito agli scandali che a maggio 2015 hanno decapitato buona parte della classe dirigente cresciuta sotto il regno di Joseph Blatter.
Dopo gli scandali del 2015
Il blitz condotto a fine maggio 2015 da Fbi e polizia svizzera presso il lussuoso Hotel Baur au Lac di Zurigo permette di scoprire in modo definitivo la capillarità dei fenomeni di corruzione all’interno della Fifa. A essere spazzata via è stata la classe dirigente del Nord e Centro America e tale limitazione di portata continentale si deve al fatto che l’inchiesta partita dagli Usa si sia concentrata sulla confederazione d’area, la Concacaf.
Ad allargare il raggio provvederanno nei mesi successivi le inchieste che in Europa colpiranno la leadership dell’Uefa, dal presidente Michel Platini al suo successore ad interim, lo spagnolo Ángel María Villar. E la delegittimazione istituzionale seguita fa saltare l’ultimo argine agli standard etici del mondo del calcio, che del resto avevano già fatto in tempo ad abbassarsi verso livelli infimi.
E mentre le leadership della Fifa e dell’Uefa vengono travolte dagli scandali, i due paesi organizzatori dei Mondiali assegnati la sera del 2 dicembre 2010 mostrano il loro vero volto. Lo fanno sia in politica estera che nel governo del sistema sociale al loro interno, ma soprattutto mostrano quanto l’uso dello sport sia funzionale alla normalizzazione del loro profilo da attori della scena internazionale: essere meta di una grande manifestazione sportiva internazionale significa non soltanto mettersi al centro della scena mediatica globale per il tempo di durata della kermesse, ciò che è di per sé uno strumento di legittimazione e normalizzazione della propria immagine internazionale; ma entrano anche in ballo la possibilità di esibire efficienza organizzativa, di veicolare un sistema di valori e uno stile di vita, di proiettare all’esterno un’immagine edificante e spesso in contrasto con le rappresentazioni correnti.
Marchi d’infamia
Certo, può anche succedere che una grande manifestazione sportiva si trasformi in un boomerang comunicativo se questa diventa il palcoscenico globale per l’espressione di un malessere sociale diffuso nel paese (come accaduto al Brasile, nello sciagurato biennio che lo ha visto ospitare i Mondiali del 2014 e le olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016), ma in linea generale un appuntamento del genere diventa una grande opportunità di propaganda. Persino di distrazione, come dimostrano le olimpiadi invernali di Sochi volute da Putin e chiuse nello stesso giorno in cui veniva avviata l’operazione di annessione della Crimea (23 febbraio 2014).
Quanto al Qatar, la stima dei 6.500 morti fra gli operai immigrati che in condizioni prossime alla schiavitù hanno lavorato all’edificazione degli stadi è un marchio d’infamia che il calcio mondiale porterà per sempre con sé.
Eppure l’avvio del neo-imperialismo putiniano non ha minimamente scalfito la legittimità della Russia come paese ospitante dei Mondiali 2018, allo stesso modo in cui la strage silenziosa degli operai stranieri non ha messo a repentaglio l’organizzazione di Qatar 2022. Anzi, il presidente della Fifa sotto la cui leadership si sono svolte entrambe le manifestazioni, l’avvocato italo-svizzero Gianni Infantino, non ha perso occasione per farsi immortalare accanto al nuovo zar di tutte le Russie, e da qualche mese ha addirittura spostato in Qatar la residenza per sé e la famiglia. Da lì ha fatto inviare un messaggio alle federazioni presenti ai Mondiali, affinché sensibilizzino i calciatori e gli staff tecnici a lasciar perdere le questioni politiche e di diritti umani e pensino soltanto al calcio. Infamia al quadrato.
Chi finanzia il calcio globale
Ma perché il mondo del calcio, a partire dai suoi vertici istituzionali, è così indifferente rispetto al tema della qualità democratica di organizzatori e finanziatori? Risposta: perché c’è stata una fase in cui era proprio da paesi non democratici che veniva mostrata una vasta disponibilità di capitali da investire nel calcio. Disponibilità che in Europa si trova sempre più raramente. E invece, nel passaggio storico che vedeva assegnare due Mondiali in un colpo solo, proprio dall’area geopolitica post-sovietica e da quella della penisola araba giungeva nel calcio europeo uno straordinario flusso di capitali.
Nell’estate del 2003 Roman Abramovich apre la strada agli oligarchi comprando il Chelsea e trasformando una società di medio livello nazionale in una potenza del calcio internazionale. E a cavallo fra gli anni Zero e gli anni Dieci arrivano il petroldollari, col Manchester City che nel 2008 viene acquisito da un fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti, e il Paris Saint-Germain acquisito da un fondo sovrano qatariota nell’estate del 2011.
Le gerarchie calcistiche nazionali e internazionali vengono brutalmente ridisegnate grazie alla forza del denaro. Ma le eccezioni sull’iniquo squilibrio competitivo generato da club che possono spendere pressoché senza limiti perché controllati da uno stato sovrano, o sull’oscura provenienza dei capitali maneggiati dagli oligarchi, vengono regolarmente snobbate da Fifa e Uefa. Che anzi accolgono con favore anche il biennio di follia cinese, gli anni a metà del decennio scorso in cui pareva che la Cina potesse comprarsi il calcio mondiale mettendo sul piatto la forza di un sistema-paese e di un’economia che pareva non conoscessero il senso del limite.
Si tratta di una sbornia presto esaurita, anche perché la quantità di risorse impegnate va oltre ragionevolezza e finisce per irritare il governo centrale che pure in una prima fase aveva visto con favore l’instaurarsi di questo processo. Ma finché dura, l’azzardo cinese fa intravedere un terzo fronte di sviluppo geopolitico del calcio. E ancora una volta si tratta di un fronte post-democratico, che fino a che è stato percepito come una prospettiva percorribile non ha provocato turbamento né presso il popolo dei tifosi né presso le autorità del calcio internazionale.
Del resto, queste ultime annoverano fra i propri ranghi fior di oligarchi e autocrati. Se costoro usciranno dal mondo del calcio sarà soltanto a causa di rovesci subiti in ambito politico o economico (o magari a piedi in avanti), non certo perché il calcio stesso avrà deciso di emendarsi della loro presenza.
© Riproduzione riservata