- L’immagine del papa plasmata dai media era diventata il problema cruciale del pontificato, che ormai non si poteva più trascurare. Benedetto XVI non si lasciava condizionare né manipolare, ma i giornalisti avevano acquisito sovranità su di lui, e questo era un aspetto fondamentale.
- La chiesa rimaneva era un obiettivo facile: «È come una città che viene sovente bombardata dal cielo, ma che si ostina a non munirsi dell’artiglieria antiaerea, di un’aviazione efficace e di radar sofisticati che permettano di vedere gli aerei in arrivo», ha scritto Foa. Anche l’errore più sciocco l’avrebbe tramutata nel bersaglio perfetto.
- Un estratto da Benedetto XVI – Una vita, di Peter Seewald. Traduzione dal tedesco di Giuliana Mancuso, Monica Manzella, Paola Rumi. Titolo originale dell’opera: Benedikt XVI. Ein Leben, Grazanti.
L’immagine del papa plasmata dai media era diventata il problema cruciale del pontificato, che ormai non si poteva più trascurare. Benedetto XVI non si lasciava condizionare né manipolare, come ha affermato la studiosa di scienze della comunicazione Friederike Glavanovics in un’indagine, ma i giornalisti avevano acquisito sovranità su di lui, e questo era un aspetto fondamentale.
Oltretutto in Vaticano non esisteva una politica mediatica attiva, né vi erano consulenti professionisti che avrebbero potuto identificare in anticipo trappole e gaffe. «La comunicazione vaticana», ha affermato Marcello Foa, docente di giornalismo all’Università di Lugano ed esperto di disinformazione dei media, «non ha capito che le guerre moderne vengono combattute con strumenti non convenzionali, tra i quali, nel caso specifico, lo “spin” ovvero le tecniche di manipolazione mediatica. E non ha preso le adeguate contromisure».
Un obiettivo facile
La chiesa rimaneva quindi un obiettivo facile: «È come una città che viene sovente bombardata dal cielo, ma che si ostina a non munirsi dell’artiglieria antiaerea, di un’aviazione efficace e di radar sofisticati che permettano di vedere gli aerei in arrivo». Anche l’errore più sciocco l’avrebbe tramutata nel bersaglio perfetto.
Il panorama dei media era cambiato radicalmente durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Wojtyła aveva usufruito di questo sviluppo per esibire un moderno papato mediatico che avesse una presenza stampa mondiale. In merito a Ratzinger, la maggior parte degli esperti concordava sul fatto che «la Chiesa non ha mai avuto un papa così intellettuale, uno studioso, un cercatore della verità», come scrisse Glavanovics nella sua tesi Papst Benedikt XVI und die Macht der Medien (Papa Benedetto XVI e il potere dei media).
Probabilmente era «uno degli ultimi o forse l’ultimo pensatore del mondo». Utilizzando uno stile asciutto, che non si curava di creare slogan ed effetti speciali, ma che si focalizzava sul contenuto, Benedetto si rivolgeva a strati della popolazione che non solo volevano guardare ma anche ascoltare.
Si concentrava su momenti di silenzio e preghiera in comunione che avrebbero dovuto motivare la gente. Ma la sua comunicazione era ancora spesso quella di un uomo da scrivania, la cui natura riservata e delicata non era progettata per adattarsi ai media.
George Weigel, teologo e biografo americano di Giovanni Paolo II, era convinto che Benedetto rappresentasse per i suoi oppositori «l’ultimo ostacolo istituzionale di fronte a quella che egli stesso ha chiamato una volta “dittatura del relativismo”. Quindi ha degli avversari, e nemmeno pochi». Come con Wojtyła, la maggior parte dei giornalisti si rifiutava di trattare i suoi contenuti e idee: «Si limitano a denunciare e si lamentano di quella che, erroneamente, dipingono come teologia reazionaria».
Il caso Williamson aveva già portato a una significativa perdita di immagine da parte di Benedetto. Il «disastro mediatico» per lui e la Chiesa cattolica, secondo Glavanovics, si era verificato nella primavera del 2010 in seguito ai casi di abuso di cui tutto il mondo era venuto a conoscenza.
Il panico morale
Gli osservatori parlavano di un tipico esempio di «panico morale» in relazione al dibattito sui preti pedofili. Per quanto la cronaca fosse importante, un evento reale che, mediante un’estrema esagerazione, fosse causa di «panico morale» non sarebbe tanto servito alle vittime, quanto piuttosto alla strumentalizzazione per fini estranei alla vicenda. Nei primi tre mesi dell’anno, osservava Glavanovics, da parte dei principali media tedeschi non vi era stato un solo contributo in cui «papa Benedetto XVI è stato presentato in modo chiaramente positivo», per esempio in seguito alla sua iniziativa intrapresa quand’era ancora prefetto, cioè quella di avviare una linea di tolleranza zero nei confronti degli autori degli abusi. Quando il 20 marzo 2010 il Vaticano pubblicò la sua lettera pastorale alla Chiesa d’Irlanda, che conteneva «una presa di posizione e scuse esaurienti in merito al dibattito sugli abusi», «Der Spiegel» dichiarò: «Il papa tace sugli abusi in Germania».
L’allora giornalista del settimanale di Amburgo Matthias Matussek diede il suo contributo alla direzione presa dalla rivista, affermando che dopo aver scritto una recensione positiva del libro-intervista Luce del mondo, fu ammonito dal vicedirettore con queste parole: «Sii cauto, abbiamo tredici persone in prima linea che stanno cercando di dimostrare il coinvolgimento del papa nello scandalo degli abusi. Non puoi semplicemente venire qui e assolverlo come se niente fosse!».
Fondamentalmente, nel panorama della stampa moderna «non si può mai presumere che i media rappresenteranno la realtà», spiegava Glavanovics. La funzione principale dei media è quella di ridurre la complessità di una questione, «ma il background e l’interpretazione personale dei giornalisti diventano comunque parte integrante del messaggio».
I resoconti
I giornalisti agiscono politicamente comunicando in maniera parziale su argomenti conflittuali e quindi utilizzando i messaggi come mezzo per raggiungere specifici scopi. Questa prospettiva è acuita nel processo del cosiddetto aggiornamento strumentale, che presuppone che alcuni argomenti vengano riportati non solo perché rilevanti, ma perché i comunicatori perseguono determinati obiettivi. In conclusione, Glavanovics affermava: «Queste forme di presentazione dei resoconti giornalistici non sempre rispondono agli standard di verità e obiettività; piuttosto mostrano una mancanza di standard etici da parte di giornalisti e media».
L’interpretazione della realtà da parte dei giornalisti «dipende dai loro orientamenti personali, dalla loro visione del mondo e dalla linea ideologica e politica del media per cui lavorano». I risultati dello studio mostravano che, per quanto riguardava papa Benedetto, era evidente la tendenza di alcuni giornalisti a incorporare notizie negative in un contesto ancora più negativo.
Era stata costruita un’immagine «che non era tenuta a mostrare la realtà, ma solo la vitalità», cioè un’immagine fittizia avente un fine specifico. Nel caso in cui non trovassero fatti verificabili, per i giornalisti presentare accuse e dicerie come fatti era meglio di niente, data l’urgenza che avevano di consegnare i loro pezzi. Attraverso rappresentazioni distorte e abbreviate e l’interpretazione delle sue preghiere come suo unico contributo, era stata rafforzata «l’immagine mediatica di papa Benedetto XVI orientata verso una direzione conservatrice e regressiva». Nel discorso di Ratisbona, per esempio, «una frase è stata estratta dal contesto» e con questa frase «papa Benedetto XVI è stato poi stigmatizzato». Glavanovics affermò inoltre: «Per questo, e anche per altri problemi di comunicazione, papa Benedetto XVI è entrato in uno schema mediatico, una “cornice” che non consentiva più resoconti seri». Il risultato era che «il pontificato di papa Benedetto XVI, iniziato così brillantemente nel 2005, è diventato sempre più il “pontificato degli intoppi”, ogni sua nuova apparizione prometteva ai media un maggior numero di titoli negativi».
La tendenza al tabloid
All’interno del panorama cronistico in merito al papa e alla Chiesa, era diventata evidente una «tendenza alla tabloidizzazione», una forma di presentazione «che usa uno stile sorprendente, sia in termini di contenuto sia di design, e che non vuole solo informare, ma formulare anche un’opinione mirata». Da un lato, rimanere in «attesa dell’intoppo» corrispondeva a un meccanismo che viveva della soddisfazione delle aspettative, dall’altro era diventato «scopo principale degli stessi giornalisti non vedere ciò che il papa ha di interessante da dire in merito al legame tra ragione e fede, o ai problemi economici globali, bensì di concentrarsi solo sugli errori commessi».
Questa mancanza di etica esercitò «un’influenza decisiva sulla creazione dell’immagine mediatica di papa Benedetto XVI». In molti casi, il fine era solo di «compromettere il papa»: «A ciò si arriva mettendo in discussione la sua credibilità e integrità o sottolineando eventuali contraddizioni nelle sue dichiarazioni, azioni od omissioni che riguardano direttamente i suoi atteggiamenti e le sue intenzioni proclamati in pubblico».
In seguito, dopo il discorso di Ratisbona, Benedetto venne inserito «in una cornice mediatica negativa», apparendo in particolare come «un vecchio ansioso, incompreso, fissato su questioni marginali». L’immagine di papa Benedetto XVI riflessa dai media portò a un costrutto non necessariamente «tenuto a dire la verità». Allo stesso tempo veniva posta l’enfasi anche sull’espressione del «potere della manipolazione».
Alla fine dell’autunno del 2011, tuttavia, si aprì uno scenario tale per cui non fu necessaria un’intensificazione da parte dei media per tratteggiare uno scandalo. Temi centrali erano la corruzione e il riciclaggio di denaro sporco, invidie e risentimenti, un «alto tradimento in Vaticano». E non era tutto. Solo tre o quattro persone sapevano che nell’appartamento di un piccolo impiegato proprio dietro le mura del Vaticano si nascondeva una bomba, che non aspettava altro di poter esplodere.
La beatificazione di Giovanni Paolo II era stata programmata per i primi di maggio 2011. Le procedure per la beatificazione e la canonizzazione di importanti cristiani cattolici si protraevano spesso per decenni, se non per secoli. Ma a volte le cose andavano più in fretta.
La piccola Teresa di Lisieux fu elevata all’onore degli altari ventotto anni dopo la sua morte, Francesco d’Assisi addirittura dopo meno di due. Anche Madre Teresa fu beatificata a una velocità record: Wojtyła aveva consentito l’avvio della procedura a meno di due anni dalla sua morte, un processo che coinvolse ventitré cardinali, arcivescovi e vescovi, sei deputati e settantuno consiglieri.
La beatificazione è un atto della chiesa cattolica che prevede il riconoscimento di una guarigione, precedentemente richiesta in preghiera e non spiegabile dal punto di vista medico, che può essere ricondotta all’intercessione della persona defunta destinataria della beatificazione.
Nel processo, durato quattro anni, non costituirono un ostacolo le notti oscure che la suora albanese aveva dovuto sopportare al pari di tanti altri santi e in merito alle quali lei stessa aveva scritto: «Io sento che Dio non mi vuole, che Dio non è Dio, che Dio non esiste veramente».
Nel caso di Giovanni Paolo II, Benedetto annunciò l’avvio del processo di beatificazione già il 13 maggio 2005, quasi un mese dopo la sua nomina, sotto gli applausi scroscianti del clero romano. Abrogò il consueto periodo di attesa di cinque anni. Negli ultimi settecento anni, solo sei papi avevano ottenuto il massimo grado di fede e Benedetto non si lasciò sfuggire l’occasione di esprimere la sua ammirazione e il suo affetto per l’amato predecessore. Con il riconoscimento, da parte della commissione cardinalizia, della validità di un miracolo, furono soddisfatte tutte le condizioni.
Traduzione dal tedesco di Giuliana Mancuso, Monica Manzella, Paola Rumi
Titolo originale dell’opera: Benedikt XVI. Ein Leben © 2020
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Garzanti S.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol
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