Mentre qualche anno fa il sindacato sembra un vecchio arnese novecentesco, oggi gli scioperanti dello United Auto Workers sono corteggiati sia dal presidente Joe Biden, che arriva nella giornata di martedì, sia da Donald Trump, che rompe la tradizione repubblicana di vicinanza al mondo degli imprenditori
Dopo gli anni della presidenza di Ronald Reagan, l’istituzione del sindacato negli Stati Uniti sembrava entrata in una crisi irreversibile. Sempre meno influente nelle contrattazioni collettive, in calo di iscritti e scosso da diversi scandali di corruzione che hanno colpito alcuni dirigenti.
A partire dalla crisi economica del 2008, questo trend si è invertito e, pur non essendoci un boom di nuove adesioni, è tornato il prestigio. Fino a raggiungere il culmine questa settimana: lo United Auto Workers (Uaw), la sigla che rappresenta quasi 400mila lavoratori del settore automobilistico, è impegnato da quasi due settimane in uno sciopero contro le cosiddette Big Three: General Motors, Ford e Stellantis. A essere coinvolti sono circa trentotto impianti distribuiti su venti stati, ma al centro dell’interesse della politica c’è la città simbolo del boom automobilistico post-bellico, Detroit, in Michigan.
Proprio lì questa settimana c’è una doppio arrivo, egualmente importante dal punto di vista storico. Martedì è arrivato a visitare un picchetto di scioperanti il presidente Joe Biden, mentre oggi è il turno dell’ex presidente Donald Trump. In entrambi i casi, si tratta di una prima volta.
Se Biden ha già visitato diverse manifestazioni sindacali nella sua lunga carriera da senatore e per ben tre volte ha fatto lo stesso durante la campagna elettorale del 2020, è la prima volta che un presidente in carica opera una scelta a viso aperto di questo tipo. Nemmeno Franklin Delano Roosevelt durante gli anni del New Deal si spinse a tanto.
Ancora più enorme appare l’evento che coinvolge Donald Trump, ex presidente repubblicano e sfidante più probabile dell’attuale inquilino della Casa Bianca. La moderna mitologia politica conservatrice ha come mito fondativo la dura posizione di Ronald Reagan nel 1981 nei confronti dello sciopero dei controllori di volo, quando licenziò e sostituì gli aderenti alla protesta.
Oggi tutto questo cambia. Non che sia una novità la diversa strategia di Trump, che si è sempre sentito a suo agio in un mondo che per lungo tempo i democratici hanno ritenuto casa loro ma che l’ex presidente ha intuito che stava cambiando, puntando ad esempio al consenso dei lavoratori sindacalizzati nel settore estrattivo del carbone, che si sentivano abbandonati e traditi dai dem che hanno puntato tutto sulla transizione ecologica veloce, senza badare alle conseguenze sociali.
Affinità presidenziali
L’attuale presidente, a differenza di Hillary Clinton nel 2016, ha sempre mostrato sin da tempi non sospetti una particolare predilezione per i sindacati e il loro mondo, tanto che vorrebbe essere sicuro che l’industria automobilistica, nel corso della sua transizione verso la costruzione dei veicoli elettrici, non lasci a casa i lavoratori formati a costruire motori di tipo tradizionale.
Né che licenzino direttamente gli aderenti all’Uaw, come fa la Tesla di Elon Musk. Non è detto che questa conciliazione di interessi riesca: le Big Three hanno già incassato ricchi sussidi come previsto dall’approvazione dell’Inflaction Reduction Act nell’estate 2022 e non hanno dato adeguate garanzie di protezione dei diritti sindacali.
Per questo Biden ha violato la tradizionale equidistanza tenuta almeno in apparenza da tutti i presidenti democratici: sostenuti dai sindacati ma attenti a non far troppo arrabbiare quei dirigenti industriali propensi a donare ingenti somme di denaro alla causa dei dem né ad alienare il sostegno di quei repubblicani moderati decisivi per far passare provvedimenti legislativi bipartisan.
L’importanza del Michigan
Insomma, il presidente non può permettersi di perdere il Michigan come già accaduto nel 2016. Anche per questo l’arrivo di Trump a Detroit preoccupa il presidente. Anche se il presidente dell’Uaw Shawn Fain, pur essendosi distaccato dai dem, non ha mai nascosto il suo totale disprezzo per Trump, ritenuto il degno rappresentante di una «classe di milionari» che si è arricchita alle spalle dei lavoratori, come fatto dai dirigenti delle Big Three, che si sono aumentati gli stipendi del 40 per cento nell’ultimo quadriennio mentre chiedevano sempre maggiori sacrifici ai lavoratori.
Non è certo ai vertici del sindacato a cui punta Trump: da un lato vuole conquistare i semplici iscritti, che potrebbero decidere di puntare ancora una volta su di lui per proteggersi attraverso dalla pericolosa concorrenza delle auto di fabbricazione cinese, tedesca e giapponese, ma anche a far apparire i partecipanti al dibattito repubblicano presso la Reagan Presidential Library quali dei vecchi arnesi attaccati a un’antica mitologia politica quale quella del neoliberismo di matrice appunto reaganiana, mentre lui guarda a un futuro nazional-conservatore dove i repubblicani si trasformeranno, per usare le parole del suo ex stratega Steve Bannon, nel nuovo “partito dei lavoratori”.
Un azzardo che potrebbe funzionare soltanto in parte: Trump stavolta ha dalla sua un bagaglio di quattro anni di presidenza, dove le promesse sono state mantenute solo in parte mentre i redditi più alti invece hanno beneficiato di un generoso taglio delle tasse.
Anche il Michigan è cambiato: sotto la guida della governatrice Gretchen Whitmer, lo stato appare più solido nella colonna democratica di sette anni fa. Resta solo da vedere se questi elettori avranno comunque voglia di dare il loro consenso a un presidente Biden che appare sempre più stanco e vecchio.
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