Dopo l’aborto e l’affermative action, ora nelle mire della Corte suprema Usa tocca all’amministrazione: ha troppo potere, va limitata. Ma è il modo migliore per permettere a qualsiasi giudice di ostacolare l’indirizzo politico del presidente
La battaglia politica, negli Stati Uniti, si combatte su un doppio livello. C’è quello di Trump, per intenderci: chiassoso, rissoso, popolare. E poi c’è quello della Corte suprema: sofisticato, accademico, elitario, ma forse più pericoloso, perché il presidente lo cambi ogni quattro anni, mentre i giudici stanno lì a vita.
L’agenda politica della supermaggioranza della Corte – ben sei a tre – è quella che noi definiremmo, con tutte le cautele del caso, un’agenda di destra. Sicuramente un’agenda conservatrice; forse, a tratti, reazionaria.
Certo, è un indirizzo perseguito a colpi di argomentazioni giuridiche, anche sottili e delicate. L’approccio ermeneutico professato è quello di un ancoraggio saldo alla lettera della Costituzione, e al modo in cui essa era intesa quando quelle parole entravano nel testo costituzionale.
È un criterio sicuro, certo. Ma che non tiene conto del fatto che quando quelle parole entravano (o non entravano) in Costituzione, in quel processo politico non intervenivano una serie di approdi valoriali oggi invece condivisi, e quel processo politico non era aperto ad una rappresentanza ampia come quella che noi oggi riteniamo imprescindibile.
Così, ad esempio, è vero che la Costituzione non parla di interruzione volontaria di gravidanza, ma è vero anche che, ad esempio, al processo che portò all’adozione di quella Costituzione (e delle sue storiche modifiche) non partecipò alcuna donna. E forse questo una certa importanza ce l’ha.
La scelta di ancorarsi al senso delle disposizioni costituzionali così come intese al momento della loro scrittura ha permesso alla maggioranza conservatrice della Corte di demolire quelli che, finora, erano sembrati traguardi decisivi di civiltà giuridica.
Prima è toccato all’aborto, cancellato dalla lista dei diritti federali. Poi è stata la volta delle misure volte a garantire una presenza di studenti di colore nelle università, per rimediare all’endemica ineguaglianza raziale di quel sistema: anche quelle, incostituzionali. Poi una serie di altre decisioni troppo da specialisti. Ora tocca all’amministrazione, il “braccio armato” del presidente, la macchina del cosiddetto potere esecutivo: ha troppo potere, va limitata.
I due casi
Nelle settimane scorse sono arrivati alla Corte due casi – che saranno decisi nella prossima primavera – che chiedono l’overruling di un precedente del 1984 che ha fatto storia.
L’overruling consiste nella decisione della Corte di smentire una sua decisione precedente, liberandosi dal carattere vincolante del precedente. È quello che la Corte ha fatto con l’aborto, ad esempio, ma così molteplici altre volte. Se ci si mette a leggere le sentenze degli ultimi tre anni – e si leggono anche le opinioni dei giudici dissenzienti, quelli cioè che non condividono la linea della maggioranza – si trovano spesso gli stessi argomenti, ma a parti invertite. Gli argomenti che prima erano nelle opinioni dissenzienti oggi sono nella decisione della maggioranza, e viceversa.
Il precedente del 1984 di cui ora si chiede l’overruling fissava la regola secondo la quale un giudice deve avere una speciale “deferenza” (deference) verso il modo con cui l’amministrazione interpreta una legge. Con un’estrema semplificazione: se vi sono elementi di vaghezza in una legge, dovrà darsi preferenza al modo in cui è l’amministrazione ad interpretarla.
La regola – che introduce quello che qualcuno ritiene un vantaggio dell’amministrazione rispetto al potere giudiziario – è da molto tempo oggetto della critica feroce di Neil Gorsuch, nominato alla Corte da Trump nel 2017, con una procedura inedita e discussa, che permise di superare l’ostruzionismo dei democratici al Senato. Oggi che la Corte è investita della questione, non è escluso che il giudice riesca a tirare dalla sua gli altri colleghi conservatori.
D’altra parte, la scelta sarebbe in linea con una certa tendenza generale della maggioranza della Corte ad arginare l’amministrazione e a limitarne i poteri. Va in questo senso, ad esempio, il giro di vite che il collegio ha dato in materia di deleghe del legislatore alla pubblica amministrazione. Se il parlamento vuol delegare qualcosa all’amministrazione su una materia particolarmente significativa dal punto di vista politico – si è detto – deve farlo con delle norme inequivocabili. Una «clarity tax» sulle spalle del legislatore: o è più chiaro del solito, o il giudice riterrà che la delega (e quindi, in questo caso, il potere dell’amministrazione) non c’è.
Ostacolare l’indirizzo politico
Una posizione simile – così come l’eventuale overruling sulla deference – più che recuperare spazio al legislatore, in realtà, aumenta il potere dei giudici. Di tutti i giudici, beninteso, non solo della Corte suprema.
Qualunque giudice, ad esempio, potrebbe arrivare a dire che la scelta dell’amministrazione di condonare i prestiti universitari agli studenti in difficoltà per il Covid oppure il piano di riduzione delle emissioni di anidrite carbonica deciso dall’amministrazione siano questione politiche troppo importanti, e che manca una chiara e precisa delega legislativa: e quindi via, annullate, la prima quest’anno, la seconda nel 2022.
In un sistema costituzionale che già ha i suoi problemi, e che rischia spesso di bloccarsi per l’ostruzionismo di qualche minoranza, questo è il modo migliore per permettere a qualsiasi giudice di ostacolare l’indirizzo politico del presidente. E per deteriorare ancora di più la dialettica politica di un paese sempre più in crisi.
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