- Dopo le proteste del 2016 per il diritto all’aborto, nell’autunno 2020 la Polonia torna a manifestare. Lo fa quando la Corte costituzionale, in piena pandemia, restringe il diritto all’aborto, e lo fa in un modo massiccio e costante, come non si vedeva da tempo.
- Nel volume Aborto senza frontiere, dal quale è estratto questo testo, Alessandro Ajres analizza la specificità delle proteste polacche, e i tratti che invece le accomunano ad altri movimenti globali.
- Il fatto che a Varsavia ci si metta in marcia da punti diversi di una città per incontrarsi in uno spazio comune, riconquistandolo attraverso il movimento, sembrerebbe spezzare l’estetica precedente della cosiddetta rivoluzione delle piazze, in cui ci si incontrava in un luogo storico e lì si dimorava per svariate ore o giorni. Quel che sale alla ribalta, ora, è il percorso che si compie più del luogo di partenza o di approdo.
Sulla scia di quelli che lo hanno preceduto, anche il movimento polacco pro-aborto nell’ottobre 2016 identifica con la piazza la vetrina ideale per le proprie rivendicazioni: a Varsavia, Cracovia e in tutte le città coinvolte le manifestazioni si svolgono nelle piazze storiche più importanti.
A proposito di simbologia della rivolta, Furio Jesi scrive nel suo Spartakus: «Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie più remote o più care memorie; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come la propria città: propria, poiché dell’io e al tempo stesso degli “altri”; propria poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città».
Quando il fine è la ribellione, dunque, la cosa più naturale risulta andare nel luogo in cui ci si identifica come cittadini: la piazza intesa storicamente, senza alcun riguardo se si tratti della più capiente o della più idonea ai fini della manifestazione in sé. Lì dove si è comunità. Da questo punto di vista, le proteste del movimento polacco pro-aborto del 2016 non fanno eccezione.
Ritrovarsi, nel 2020
Il 30 ottobre 2020 i sostenitori del movimento vengono chiamati a raccolta a Varsavia per un momento di partecipazione realmente enorme. In quest’ultima circostanza, dato il numero di persone presenti, tre cortei differenti partono da altrettanti punti della capitale: uno di questi, naturalmente, come accaduto in occasione del 3 ottobre 2016, è rappresentato da piazza Zamkowy; ma quando i tre segmenti si riuniscono tutti assieme in piazza Dmowskiego diviene naturale, come detto, modificarne il nome informalmente in piazza Praw Kobiet (piazza dei Diritti delle donne).
Così facendo si connota quel luogo storicamente, legandolo a una causa comune, e al contempo si dà il segno della forza di un movimento legittimato a cambiare la toponomastica cittadina. Del resto, quanto siano percepite come pericolose queste azioni sui nomi delle vie e delle piazze urbane, è dimostrato da una recente legge proposta dal PiS, con la quale il partito di maggioranza del governo ha vietato la ridenominazione di strade, ponti e piazze i cui patroni siano santi, sovrani storici e «figure di riguardo nella costruzione e nel rafforzamento dello stato polacco».
Ebbene lo stimolo più forte ad avanzare tale progetto è stato proprio il timore dell’onta di ritrovarsi piazza Praw Kobiet nel centro della capitale. D’altro canto Roman Dmowski, politico vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo, per quanto da individuarsi come rappresentante centrale nella costruzione e rafforzamento dello Stato, almeno secondo la proposta di legge, è associato dalla maggior parte dei manifestanti progressisti a un’idea del paese spinta verso il nazionalismo e il fascismo. Viene messa in risalto, in particolare, la sua visione delle donne, tesa a ribadire un’impostazione patriarcale e maschilista del pensiero.
Punti diversi, spazio comune
Il fatto che ci si metta in marcia da punti diversi di una città per incontrarsi in uno spazio comune, riconquistandolo attraverso il movimento, sembrerebbe spezzare l’estetica precedente della cosiddetta rivoluzione delle piazze, in cui ci si incontrava in un luogo storico e lì si dimorava per svariate ore o giorni. Quel che sale alla ribalta, ora, è il percorso che si compie più del luogo di partenza o di approdo. A Varsavia, poi, il punto di arrivo non ha nulla di storicamente rilevante: piazza Dmowskiego è comodo perché centrale e capiente abbastanza da contenere migliaia di persone.
Dalla capitale polacca, a partire dall’autunno 2020, i movimenti di protesta paiono dunque rimettersi in marcia alla conquista di nuovi luoghi da modellare secondo le proprie istanze, abbandonando le forme statiche precedenti: «Un luogo appartiene per sempre a chi lo rivendica più di tutti, a chi lo ricorda più ossessivamente, se lo porta via, gli ridà forma, lo interpreta, lo ama in forma così radicale da ricrearlo a sua propria immagine», scrive Joan Didion in Essays & Conversations.
Il film The square di Ruben Östlund, Palma d’oro a Cannes nel 2017, ruota intorno alla prossima installazione del Museo d’arte contempoanea di Stoccolma: un quadrato, appunto, inteso come santuario dove tutti hanno uguali diritti e uguali doveri, all’interno del quale si è obbligati a fare del bene. Le premesse dell’opera vengono rivoluzionate dal corso degli eventi narrati, al termine del quale si comprende che il bene è da esercitarsi ovunque, non solo all’interno di un determinato spazio; così come l’arte, ormai, è arrivata dappertutto e le sale museali rappresentano un inutile tentativo di limitarne il campo d’azione.
«Se io sono un artista e sto per la strada, qualunque cosa faccia o inciti a fare sarà arte. L’arte non è un prodotto, ma è un’attività», scrive Pérez-Reverte ne Il cecchino paziente.
A livello sociale, possiamo sostenere che la pellicola arriva già a immaginare la decostruzione della piazza (the square) così come l’abbiamo conosciuta dal 2011: il movimento polacco pro-aborto, nelle sue manifestazioni successive al 2016, fa esplodere il concetto di piazza nato a Tahrir e affermatosi dagli indignados fino a Kiev.
Partendo proprio dall’epicentro della protesta al Cairo, Judith Butler si domanda cosa accada quando la folla fuoriesce dalla piazza per imboccare le strade laterali, fino ai quartieri in cui le vie neanche sono asfaltate: in quel caso, scrive nell’Alleanza dei corpi, succede qualcosa di più. «In quei momenti, la politica non è più ciò che ha luogo esclusivamente nella sfera pubblica, intesa come distinta da quella privata; la politica, piuttosto, attraversa ripetutamente questi confini, richiamando l’attenzione sul fatto che essa è già nelle case, per le strade, nei quartieri, o in quegli spazi virtuali slegati dalle architetture della casa o della piazza».
La continua ripartenza
Piazza Dmowskiego, o se preferite piazza Praw Kobiet, rappresenta allora un punto d’arrivo solo temporaneo, per poi ripartire. L’occupazione, la staticità si trasforma in moto continuo, nella fluidità dell’azione e – su questa trasformazione – proprio l’elemento artistico svolge un ruolo fondamentale. Come vedremo, l’arte ha un ruolo determinante all’interno delle istanze delle donne polacche schierate per l’aborto: essa viene esercitata, come non mai, al di fuori degli spazi deputati ad ospitarla, sui muri, in rete, all’aperto per strada. Difficile dire cosa venga prima, se la tensione della piazza a rovesciarsi in ogni angolo possibile della città, o quella dell’arte a uscire dai musei e dalle gallerie per farsi azione quotidiana: fattostà che la pellicola di Östlund sembra davvero profetica alla luce di quanto sta accadendo in Polonia.
Sfilarsi dalla pratica di occupare una piazza storica, oltre che evitare i pericoli del contagio pandemico, significa anche venir meno al confronto diretto delle idee, ovvero sottrarsi a una discussione pubblica reale. Implicitamente: il virtuale, per necessità e ormai anche per la diffusione che ha raggiunto, può (provare a) sostituirsi in quella parte. Se Facebook e Twitter sono le piattaforme dove riversare e organizzare i pensieri, Whatsapp e Telegram intervengono concretamente sulle proteste polacche: permettono la creazione di chat e gruppi tematici dove non si discute soltanto, ma si forniscono dettagli sulle manifestazioni che si preferisce non chiarire pubblicamente. Il che rende complicato il controllo delle forze di polizia, anche perché l’accesso a questi gruppi avviene in teoria solo dopo il filtro degli amministratori, e al contempo restituisce la sensazione di un movimento agile, organizzato, capace di muoversi malgrado le limitazioni imposte (anche dalla pandemia in corso).
Questo testo è un estratto da Aborto senza frontiere di Alessandro Ajres Rosenberg&Sellier, Torino 2022
© Riproduzione riservata