- All’indomani dell’entrata in vigore del cessate il fuoco fra Israele e i miliziani islamisti di Gaza, dopo 11 giorni di combattimenti, Netanyahu non sembra intenzionato a seguire l’insegnamento di una delle sua massime più famose: «Non lasciare mai che una bella crisi vada sprecata».
- Bibi non ha neppure toccato il tema di una risoluzione politica del problema della striscia. Nel suo intervento poi ha avvertito Hamas che d’ora in avanti qualsiasi attacco anche di bassa intensità verrà punito con la massima durezza.
- C’è voluto il ministro della Difesa, Benny Gantz, per avere il coraggio di dare voce a una triste verità: se non viene dato un seguito politico a questo conflitto, ha detto, il rischio è che la guerra non sia servita a nulla.
Grande ammiratore del premier inglese Winston Churchill, anche durante l’ultima guerra il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, non ha resistito alla tentazione di citarlo pubblicamente come esempio di risolutezza, e ribadire come lo consideri «uno dei più grandi leader della storia moderna». Ma all’indomani dell’entrata in vigore del cessate il fuoco fra Israele e i miliziani islamisti di Gaza, dopo 11 giorni di combattimenti, Bibi, come è conosciuto fra gli israeliani, non sembra intenzionato a seguire l’insegnamento di una delle sua massime più famose: «Non lasciare mai che una bella crisi vada sprecata».
Dopo 255 morti, 4mila razzi palestinesi, migliaia di bombardamenti israeliani che avrebbero fatto 250 milioni di danni nella striscia, senza contare le deflagrazioni causate dal conflitto nel resto del paese, alla conferenza stampa di venerdì all’una, ora israeliana, Netanyahu non ha neppure toccato il tema di una risoluzione politica del problema della striscia. «Non mi sorprende affatto», dice Daniel Levy, presidente del think-tank US/Middle East Project e negoziatore israeliano all’epoca degli accordi di Oslo, «in fondo la situazione non gli dispiace, noi torniamo sulle spiagge, loro tornano nella loro prigione».
Nel suo intervento Bibi ha avvertito Hamas che d’ora in avanti qualsiasi attacco anche di bassa intensità verrà punito con la massima durezza, usando espressioni di richiamo religioso come “be yad-hazaka”, cioè “con mano possente”. Ha promesso i fondi necessari alla ricostruzione alle zone colpite, citando in particolare la città meridionale di Ashkelon, bersagliata per giorni dai miliziani. E ha ammonito i cittadini arabo-israeliani protagonisti della sommossa interna, specificando che non si è trattato di tutti, e nemmeno della maggioranza, ma pur sempre di una «myut mashmautit», una minoranza significativa. «È stato molto duro nei loro confronti», dice Levy, «nella giornata del cessate il fuoco avrebbe potuto cercare di creare un clima differente».
La versione di Gantz
C’è voluto il ministro della Difesa, Benny Gantz, secondo a salire sul podio della Kyriah, il sancta sanctorum della difesa israeliana, per avere il coraggio di dare voce a una triste verità: se non viene dato un seguito politico a questo conflitto, ha detto, il rischio è che la guerra non sia servita a nulla, e che il ciclo di violenza continui, come negli ultimi quindici anni. «Non possiamo accontentarci solo di calma in cambio di calma», ha detto Gantz. «Se non ci muoviamo in fretta sul fronte politico, “Guardiano delle mura” (questo il nome dell’operazione, ndr.) sarà soltanto un altro round di violenze in attesa della prossima campagna. Il governo israeliano non ha il diritto di trasformare un conseguimento militare senza precedenti in un’opportunità mancata».
Anche sugli scontri nelle città arabo-israeliane, definiti espressione di un «terrorismo nazionalista», Gantz ha parlato della necessità di un «profondo processo di risanamento», che vada oltre la «terapia d’urto» messa in atto dagli apparati di sicurezza israeliani per ristabilire la calma. Lo sa bene Hassan Jabareen, noto avvocato per i diritti umani e fondatore del centro di consulenza legale Adalah di Haifa, città nota per la convivenza riuscita fra arabi ed ebrei ma a sua volta divenuta teatro di scontri negli ultimi giorni. «Netanyahu voleva che gli israeliani si sentissero come nel mezzo di una guerra totale, perché unirli serviva i suoi interessi politici», dice al telefono da Haifa. «I rinvii a giudizio recapitati finora in seguito agli scontri sono quasi tutti per cittadini arabi, e quasi nessuno per gli estremisti ebrei. Questo dimostra che non c’è uguaglianza di fronte alla legge. Abbiamo paura delle squadre di estremisti israeliani».
Lacerazione politica
Lacerato il tessuto sociale che tiene uniti arabi ed ebrei israeliani, la guerra restituisce anche uno stallo politico che sembra destinato a costringere il paese ad un’ennesima consultazione elettorale. Per Netanyahu – primo ministro da 13 anni consecutivi ma incapace di mettere insieme una maggioranza per governare – il tentativo di ricorrere al sostegno dei rappresentanti arabi per rimanere al potere era già fallito prima della guerra.
Proprio il conflitto ha invece fatto deragliare quello dei suoi avversari: arrivati vicinissimi ad un accordo con il partito arabo di Mansour Abbas, lo hanno abbandonato in seguito agli scontri. Una nuova tornata elettorale sarebbe la quinta consecutiva, dopo quattro nel giro di meno di due anni.
Anche sul fronte palestinese la guerra non sembra destinata a riappianare le divisione politiche: a Ramallah, dove questo mese si sarebbero dovute tenere le consultazioni elettorali, il sistema rimane in panne. Nasser al Qidwa, nipote dell’ex leader palestinese Yasser Arafat nonché leader di una lista di Fatah che avrebbe dovuto correre contro Abu Mazen nelle elezioni che sono state rinviate, ha poca fiducia che al cessate il fuoco possano seguire passi avanti politici. «Penso che il rinvio delle elezioni possa aver contribuito a creare quella sensazione di vuoto e di sfiducia nella quale Hamas ha provato a inserirsi e ritagliarsi un ruolo», dice Qidwa al telefono da Ramallah. «È presto per dire quale effetto la guerra avrà avuto sui rapporti fra le fazioni, ma il mio timore è possa solo allontanarle».
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