Nella mattinata un commando israeliano ha fatto irruzione in un ospedale di Jenin, nella Cisgiordania, uccidendo tre militanti palestinesi. La bozza di accordo per una tregua elaborata Usa, Egitto, Qatar e Israele si scontra con la realtà: Netanyahu non si ritirerà da Gaza e non è disposto a rilasciare migliaia di prigionieri. Il leader di Hamas dice formalmente di essere disposto a negoziare al Cairo, ma non accetta altro esito che il ritiro dell’Idf dalla Striscia
Le trattative per un accordo di cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi prigionieri nell’enclave sono proseguite ieri, sebbene le posizioni del governo israeliano e di Hamas sembrino in queste ore inconciliabili.
Il leader del gruppo palestinese che controlla la Striscia, Ismail Haniyeh, ha fatto sapere di aver ricevuto una nuova proposta di cessate il fuoco dopo gli incontri tra i negoziatori a Parigi di domenica: il direttore della Cia, il primo ministro del Qatar, il capo del Mossad e quello dei servizi segreti egiziani.
La bozza prevederebbe una tregua di sei settimane e lo scambio graduale di ostaggi di Hamas con detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane, secondo quanto trapelato ieri.
Haniyeh si è detto disposto ad esaminare il piano senza commentarne direttamente il contenuto e ha espresso la volontà di recarsi al Cairo per discuterne. Tuttavia, il leader di Hamas ha aggiunto che la priorità per il gruppo è la fine delle ostilità a Gaza e il ritiro totale delle forze israeliane, una condizione, quest’ultima, che difficilmente troverà l’accordo del governo del premier Benjamin Netanyahu.
«Non rimuoveremo l’Idf dalla Striscia di Gaza e non libereremo migliaia di terroristi» ha detto Netanyahu ieri in un discorso all’accademia Bnei David a Eli, un insediamento di coloni in Cisgiordania. «Nulla di tutto ciò. Che cosa accadrà? La vittoria assoluta».
Il commando
Questi ultimi sviluppi si inseriscono in quadro ancora più destabilizzato dagli eventi degli ultimi giorni. Nella mattinata di ieri un commando israeliano ha fatto irruzione in un ospedale di Jenin, importante città della Cisgiordania, uccidendo tre militanti palestinesi.
In particolare, l’esercito israeliano ha identificato uno dei tre uomini uccisi come il ventisettenne Mohammed Jalamneh, accusandolo di aver avuto contatti con i quartieri generali di Hamas all’estero e di pianificare un attacco ispirato da quello del 7 ottobre, che ha scatenato la guerra di Gaza.
Gran parte della Cisgiordania, che peraltro è parte del territorio dove si creerebbe lo stato palestinese come soluzione del conflitto storico tra israeliani e palestinesi, è teatro di scontri quasi giornalieri tra forze armate e coloni israeliani da una parte e palestinesi dall’altra.
Si teme dunque che il blitz di ieri mattina possa portare a maggiori tensioni nella zona, espandendo i fronti di questa guerra. Intanto, sirene antimissile sono suonate lunedì a Tel Aviv, dopo un mese di silenzio, a seguito del lancio di razzi da nord della Striscia provocando scontri in quella zona, malgrado l’esercito israeliano avesse dichiarato in dicembre che il nord di Gaza era ormai sotto il controllo dello Stato ebraico.
La comunità internazionale continua a guardare speranzosa alla possibilità di un cessate il fuoco, ma i margini rimangono oggettivamente molto limitati, se non, a parere di molti, quasi nulli.
Insediamenti ed estremisti
«Non credo esista alcuna possibilità di una reale tregua, né di ritiro delle forze israeliane. Appena due giorni fa 12 ministri israeliani hanno partecipato alla manifestazione tenuta a Gerusalemme per rendere operativa la definitiva rioccupazione e colonizzazione di Gaza» dice Lorenzo Kamel, professore di Storia Contemporanea all’Università di Torino.
Kamel si riferisce alla manifestazione di domenica dell’estrema destra messianica, a cui hanno partecipato ministri del Likud, il partito di Netanyahu, oltre che quelli di Potere ebraico e del Partito sionista religioso, rappresentati da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.
Questo lo stesso giorno in cui a Parigi si trattava sulla proposta di cessate il fuoco. Si aggiunga, continua Kamel, che: «Le autorità israeliane proveranno nei prossimi giorni a prendere possesso del “Tzir Filadelfia”, il corridoio di suolo tra l’Egitto e la striscia di Gaza: l’obiettivo non è solo quello di controllare l’entrata e l’uscita delle merci, bensì anche le “espulsioni volontarie”, apertamente caldeggiate da numerosi ministri israeliani».
«Su un piano più generale, resta valido il “Basic principle” espresso dal governo israeliano in carica il giorno in cui ha prestato giuramento: “Il popolo ebraico ha il diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra di Israele: Galilea, Negev, Golan, Giudea e Samaria”», conclude Kamel.
Secondo quanto riportato da Axios, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant avrebbe detto agli alleati americani che sia lui sia l’esercito non permetteranno la costruzione di insediamenti di coloni a Gaza, una volta terminata la guerra, in un ennesimo segnale dei tentativi, ma anche della difficoltà, da parte del governo di mitigare le spinte più estremiste delle frange messianiche del governo.
Pur considerando le posizioni dell’esecutivo in carica un pericolo per Israele, molti studiosi le considerano un problema ovviabile nella ricerca di una soluzione al conflitto.
«Essendo gli ebrei una minoranza in un Medio Oriente arabo e musulmano, sono molti più inclini a una soluzione, a prescindere dal governo in carica» spiega Einat Wilf, ex parlamentare israeliana per il partito laburista, membro del board di Elnet e co-autrice del libro The War of Return, in cui argomenta che i palestinesi non sono portatori di un diritto al ritorno nelle terre ora parte del territorio di Israele.
«Gli ebrei non saranno mai il problema qui, anche col il governo più pazzo o di destra estrema. Se ci fossero opportunità reali di pace, noi saremmo sempre pronti a un compromesso.
Per quanto detesti il governo e questi elementi di estrema destra, penso che siano un pericolo per Israele, ma non la ragione per cui gli arabi sono in conflitto con noi» dice Wilf, che sostiene la creazione di uno Stato palestinese accanto ad Israele.
«L’unica ragione per cui non c’è la pace è che gli arabi e i palestinesi in particolare si sono dedicati ad un’unica causa: nessuno Stato ebraico» conclude Wilf.
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