Quando l’esercito israeliano pareva ormai prossimo a lanciare l’attacco finale su Rafah, ecco riapparire all’orizzonte il fantasma che rovina i sonni e i piani del governo Netanyahu: la giustizia internazionale. Tre mesi fa il tribunale dell’Onu, sigla Icj, aveva intimato a Israele di porre fine agli “acts of genocide” inflitti ai palestinesi.

Adesso, seguito prevedibile di quella pronuncia, è un altro prodotto dell’universalismo liberale, la Corte penale internazionale, a incupire governo e stato maggiore.

Stando ai media israeliani, premier, ministri e generali potrebbero essere presto colpiti da ordini di cattura internazionale per crimini gravissimi. Gli ordini di cattura si emettono, non si preannunciano. E quando si preannunciano, talvolta non si emettono. Sicché è possibile che chi ha messo sull’avviso Bibi volesse fargli capire che pagherebbe caro l’attacco a Rafah. Rinunci, come gli chiede Biden, o si troverà a condividere con Putin e con i generali sudanesi lo status di criminale internazionale. Sia o no questa la mossa dello scacco matto, mai come ieri sera un accordo per il cessate il fuoco pareva non impossibile.

L’ingresso in scena della Corte penale internazionale (in sigla Icc) era stato richiesto da varie democrazie – le ultime: Cile e Messico – ma non pareva scontato. Il procuratore della Corte, Karim Khan, era apparso sul confine di Rafah, ma non aveva potuto varcarlo perché l’esercito israeliano aveva fatto sapere di non volerlo tra i piedi. Nondimeno qualche soggetto internazionale deve averlo aiutato a raccogliere prove, altrimenti non si parlerebbe di imminenti ordini di cattura.

Il governo di Netanyahu li dà per certi, ne ha discusso domenica, e oggi il ministero degli Esteri ha messo in allarme le ambasciate: si teme, dice il ministro, che la decisione dell’Icc provochi ondate di “antisemitismo”. Che questa epoca offra ghiotte occasioni a giudeofobi e islamofobi è sicuro.

Ma screditare preventivamente le accuse collegandole all’antisemitismo con un nesso di causa è una strategia che ormai funziona solo nei pochi paesi dove la destra israeliana gode ancora di ampio credito, come l’Italia. Altrove è sempre più difficile, per Bibi e sodali, contrastare l’incalzare d’un lessico che non lascia nascondigli: “acts of genocide”, crimini di guerra, crimini contro l’umanità…

«Israele è diventato un paria internazionale», dice il ministro degli Esteri giordano, e non pare affatto gongolare: quanto più il diritto internazionale smaschera il governo Netanyahu, tanto più diventa difficile, in Giordania e in Egitto, arginare proteste di massa dagli esiti non prevedibili: «Oggi scendono in piazza per la Palestina, domani potrebbero protestare contro Lui (il dittatore al Sisi)», dice al New York Times Nabeh Ganady, legale di 14 attivisti arrestati al Cairo all’inizio di aprile.

Sono infatti un’arma a doppio taglio, i diritti umani: se nei paesi arabi all’improvviso diventasse lecito difenderli perché Israele li calpesta, poi i regimi potranno continuare a terrorizzare i dissidenti con i sistemi tradizionali, tortura, omicidio, decenni di galera?

Potrebbe aprirsi una partita interessante anche all’interno del radicalismo arabo, se la Corte penale internazionale raccontasse concretamente cosa è stato il pogrom di Hamas/Jihad: crimine contro l’umanità, e così ripugnante da far accapponare anche pellacce islamiste. In fondo questa è la vera funzione della giustizia internazionale: dare alle cose il loro vero nome, la definizione universale sulla quale possano convergere tutte le società, quale che sia il loro sistema di valori.

Beninteso, non sarebbe irrilevante se dal giorno alla notte Netanyahu e i suoi ministri scoprissero di non poter viaggiare in alcuno dei 124 paesi che riconoscono la Corte penale, perché qualsiasi ufficio giudiziario sarebbe autorizzato a farli arrestare. Ed è comprensibile che il premier, così raccontano le cronache di palazzo, ora sia di pessimo umore: un cessate il fuoco gli toglierebbe definitivamente la possibilità, ancorché remota, di annichilire Hamas. Potrebbe cercare gloria militare nel Libano, ma intanto sarebbe più esposto alle pressioni occidentali perché il suo giverno riconosca uno stato palestinese, soluzione che i cinque sesti della Knesset al momento rifiutano. E dovrebbe rendere conto degli ostaggi morti sotto i bombardamenti, inutilmente.

La sua sventura sarebbe la fortuna dei più vulnerabili tra i vulnerabili, gli ostaggi ancora vivi, e dei palestinesi di Gaza, quelli sopravvissuti all’ordalia. A questi ultimi il futuro riserva solo macerie, anche se la guerra finisse domani occorrerebbero 14 anni, calcolano tecnici internazionali, per sgomberare quel che resta, tra detriti e ordigni inesplosi, di tanti urbicidi.

L’università di Gaza, per esempio, è una rovina. Ecco un tema cui in Italia potrebbero applicarsi con proposte concrete studenti che protestano e flemmatici presidi, non particolarmente turbati dal fatto che un’università sia stata intenzionalmente rasa al suolo.

© Riproduzione riservata